FORCAIOLO ?

FORCAIOLO ?

 Circa un anno fa, ho avuto modo di vedere una puntata della benemerita trasmissione  di Roberta Petrelluzzi, Un giorno in pretura, dedicata a un processo in cui compariva l’efferato assassino Angelo Izzo, il “mostro del Circeo”. Ora quella trasmissione è recuperabile in rete all’indirizzo https://vimeo.com/10291189. In quel processo, celebrato presso la corte d’assise di Campobasso nel settembre del 2007, l’accusato era il giovane Luca Palaia, complice materiale di Izzo nel duplice omicidio di Carmela Linciano e della di lei figlia Valentina Maiorano, per il quale Izzo era già stato condannato a un nuovo ergastolo, mentre qui appariva soltanto in veste di testimone. Ma, poiché la sua testimonianza era sostanzialmente una dettagliata ricostruzione di quel delitto, egli divenne il vero protagonista del processo e, come tale, fu in grado di dare via libera a tutto il suo esibizionismo.

Vale la pena di ricordare che, qualche anno prima, Izzo aveva già fatto una comparsa in televisione, quella volta nel programma di Franca Leosini, Storie maledette, dove peraltro recitava la parte del pentito – a mio parere maldestramente poiché anche qui non avrebbe dovuto essere stato difficile riconoscere il suo predominante esibizionismo e la sua soddisfazione. Tuttavia molti ci credettero.

Comunque, nel processo Palaia tutti i veli sono caduti, non c’è la minima traccia non dirò di pentimento, ma anche soltanto di dubbio: ciò che ha fatto andava fatto, perché era il bene, cioè il suo bene, in cui si compiace e che gli dà piacere. Anzi, è troppo poco: come è noto, Izzo ha confessato una serie di altri omicidi, alcuni dei quali forse inventati perché desiderati.

Al processo, Izzo, si presentò con una pretesa di eleganza – abito blu con tanto di cravatta, se pur slacciata – che peraltro non riusciva a nascondere la sua figura ingrassata e sgraziata, che non aveva più nulla del giovane pariolino belloccio e slanciato, come se la galera lo avesse trasformato, ma non certo lasciandogli segni di sofferenza, che anzi la sua rotondità sembrava il pendant fisico del suo benessere psichico: sembrava addirittura che in galera ci fosse stato benissimo. O i delitti? Volesse il cielo che malvagità e peccati si leggessero nell’aspetto, come era successo al ritratto di Dorian Gray! Ma la cosa più rilevante fu il suo comportamento, strafottente aggressivo e soprattutto ironico: non si peritava di prendere in giro i magistrati, rinfacciando loro di non avere la sua competenza criminale – e certo aveva ragione: verum ipsum factum, diceva Vico: le cose, la vita, non si conoscono davvero contemplandole, ma solo facendole.

Ora, è proprio questo comportamento da uomo soddisfatto di sé e starei per dire felice, che mi induce ad alcune riflessioni sulla giustizia. Riflessioni che ovviamente valgono quel che possono valere per essere di un perfetto incompetente in materia di diritto penale.

Nel sentire comune del nostro tempo e della nostra civiltà, la pena inflitta a chi si è reso colpevole di un delitto ha tre scopi principali: 1. ristabilire un equilibrio, cioè far pagare per un danno arrecato a un individuo e\o alla società; 2. rassicurare la popolazione, impedendo che il delinquente possa nuocere ancora; 3. recuperare il colpevole attraverso il pentimento e la rieducazione.

Esaminiamoli nel dettaglio. 1. Ristabilire un equilibrio e riparare un danno: ciò significa evidentemente che la pena deve essere proporzionale alla gravità del delitto commesso. Il primo riferimento non può essere che all’antica “legge del taglione”: chi ha ucciso deve venir ucciso. Ma se questo può, abbastanza paradossalmente del resto, ristabilire un equilibrio, evidentemente non ripara il danno. Ragion per cui, nelle antiche civiltà ebraica e mussulmana, o, più tardi,  in quella longobarda alla condanna penale poteva aggiungersene una che oggi, in qualche misura, potremmo chiamare di diritto civile: il pagamento di un prezzo corrispondente al danno causato, che talvolta poteva sostituire la pena fisica, con una sorta di quantificazione del valore della vita perduta. E anche oggi tra le pene accessorie si condanna il colpevole al pagamento dei danni, inqualche modo quantificando il valore di una vita: del suo valore affettivo o (mi si scusi il gioco di parole) di quello effettivo. Tuttavia, nell’ordinamento attuale, tale pena accessoria rimane una conseguenza, sia pure mediata, della punizione inflitta e quindi del ripristino dell’ordine violato, che precede e prevale sul principio dell’estinzione di un debito dovuto alle parti lese (e forse vale la pena di ricordare che la parola tedesca “Schuld” significa “colpa”, ma anche “debito”).

Oggi, almeno nei paesi più civili che hanno abolito la pena di morte, tale pena è stata sostituita dall’ergastolo – anche se, personalmente, preferirei morire piuttosto che affrontare la prospettiva di vivere il resto della mia vita in galera, ma non è così per tutti, anche perché, come vedremo, c’è galera e galera. D’altra parte, l’ergastolo (ossia la morte civile) non viene automaticamente comminato a chi ha ucciso: ci devono essere delle aggravanti, come la crudeltà l’efferatezza o i futili motivi (che certo non mancavano nel caso del ‘nostro eroe’) e nessuna attenuante: provocazione, difesa o quant’altro. Di solito, coloro che hanno subito il danno, cioè i parenti della vittima, si affannano a proclamare che non chiedono vendetta, ma solo giustizia, come se fra le due cose ci fosse grande differenza: in realtà, se non si chiede vendetta, si rivendica giustizia, il parallelismo dei due termini essendo ancora più chiaro nell’inglese “revenge”, mentre il latino “vindicare” significa in prima istanza “reclamare”. 

2) Sicurezza. Ai nostri giorni, almeno in quasi tutti i paesi occidentali, la prigione è praticamente l’unica pena che viene inflitta a chi commette dei reati – qualunque tipo di reati, dalla truffa alla corruzione, dalla rapina all’omicidio. Nella presunzione, evidentemente, che chi ha commesso un reato potrebbe più facilmente tornare a delinquere, ma anche che tale punizione, che consiste o dovrebbe consistere soltanto nella privazione della libertà, costituisca un deterrente sufficiente a impedire altri delitti. Presunzione piuttosto ottimistica, come dimostra la cronaca recente, in cui l’emulazione e il fascino del delitto sembrano prevalere sul timore della pena, al punto che qualcuno ha potuto affermare che «di massacri del Circeo ormai ne vediamo uno alla settimana». In verità il timore della pena, per quanto pesante, non è mai stato sufficiente a impedire che si commettano dei delitti, come hanno da sempre sostenuto quanti hanno preteso l’abolizione della pena di morte, a partire da Beccaria. 

3) Recupero del delinquente. O sua redenzione? I due termini non sono esattamente sovrapponibili, poiché in “recuperare” il prefisso “re-“ implica in qualche modo una iterazione: “prendere” un’altra volta, “ri-trovare” quello che c’era già, cioè forse l’originaria bontà o onestà del delinquente, che era andata perduta, e quindi riportare il delinquente stesso nel contesto della vita civile o associata; mentre “redenzione” deriva dal verbo “redimere” che alla lettera significa “comprare” (latino “emere”) e implica la presenza di un compratore, che paga di tasca sua, di un “Redentore”, presente in tutte le religioni monoteiste e identificato con la stessa divinità: nel Cristianesimo “redentore” è la qualifica primaria di Gesù. Solo nel Buddismo, religione senza un Dio, l’uomo può soltanto salvarsi da sé, attraverso un lungo e incerto percorso che potremmo definire penitenziale, simile, in qualche modo, al Purgatorio cristiano. In ogni caso però, tanto la redenzione quanto il recupero possono avvenire soltanto attraverso il pentimento, che, forse in prima istanza, ha il significato di un razionale riconoscimento dell’errore, per poi assumere un valore coscienziale come rimorso, ossia sentimento doloroso che può essere indotto dalla pena, ma che, alla fine, è pena esso stesso, tale da poter addirittura cancellare la pena giudiziaria – si pensi al dostoievskiano Delitto e castigo. Ed è infatti sull’esistenza di questo complesso intreccio di riconoscimento razionale e di situazione psichica che il magistrato di sorveglianza è chiamato a decidere se concedere la sospensione o l’attenuazione della pena costrittiva. Poiché il pentimento non può essere soltanto dichiarato, in teoria dovrebbe venir dimostrato – cosa che non sembra possibile, a meno che, come succede per i “pentiti” di mafia, non venga corroborato da comportamenti concreti. Nel caso di Angelo Izzo, il Tribunale di Sorveglianza di Palermo, concedendogli la semilibertà, è incorso in un errore tanto clamoroso da non poter trovare giustificazione nell’inevitabile grado di soggettività dei giudizi che vertono su situazioni di ordine psicologico (la verità del pentimento). Al punto da provocare una condanna comminata all’Italia dalla Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo, la quale ha motivato la sentenza sostenendo che i giudici di sorveglianza non avrebbero ottemperato al loro dovere di proteggere la società da un detenuto pericoloso e reo di crimini tanto efferati. In buona sostanza, la Corte europea ha ritenuto, da una parte, che il principio della redenzione del delinquente fosse entrato in conflitto con quello della sicurezza sociale; ma, dall’altra, anche che l’efferatezza e la continuità dei delitti commessi non potessero trovare nel presunto pentimento una ragione sufficiente per l’estinzione della pena, in ordine al principio del riequilibrio e della riparazione del danno. E ciò, nonostante che molti considerino la redenzione come il compito più importante della pena.

Benedetto Croce ha scritto che la storia è sempre giustificatrice, mai giustiziera. Ma, attenzione!, “giustificare” non significa “assolvere”: significa individuare il nesso causale tra gli eventi i comportamenti e le azioni. Ragion per cui potremmo dire che quanti hanno cercato di spiegare i motivi che hanno spinto Izzo a commettere i suoi delitti, si sono comportati da storici, non da giudici. E tuttavia c’è qualcosa nelle loro argomentazioni che spinge a considerare quei delitti come inevitabili, con una sotterranea, e perfettamente comprensibile, negazione del libero arbitrio, senza il quale non può esistere colpa. Ma questi sono problemi metafisici. Nella concretezza è comunque importante cercar di capire le cause o le ragioni di quei delitti così come la loro qualità. Tutti hanno rilevato che tali cause non potevano essere individuate nell’ordine sociologico, vale a dire in quella rabbia che gli esclusi e gli oppressi possono provare contro la società e che può alla fine indurre all’odio per tutti gli uomini. E tanto meno nell’ordine familiare: Izzo (come ha ampiamente illustrato Edoardo Albinati in La scuola cattolica) veniva da una famiglia agiata e affettuosa, forse fin troppo permissiva, visto che ha continuato ad aiutarlo e a sostenerlo anche dopo la condanna. L’unica soluzione è parsa allora quella di individuare la causa in una malattia, che è stata definita come schizofrenia paranoide, che non sembrerebbe curabile perché di carattere organico. In altre parole Izzo sarebbe un “natural born killer”, nei confronti del quale non si può immaginare una redenzione, ma, per paradosso, neppure una punizione: soltanto, semmai, una reclusione che gli impedisca di nuocere.

In verità questa prospettiva (e chiamiamola pure “storica” o “funzionale”) non è utilizzabile: tutti siamo determinati dal nostro essere, o dal nostro DNA, prima ancora che dalla nostra storia. Quindi, semplicemente, la colpa non esiste, e quindi neppure la giustizia può esistere. Ma così siamo ancora nel campo della metafisica. Nella pratica la giustizia è l’elemento fondante che rende possibile la società umana. Sarà invece importante vedere che tipo di delitti Izzo abbia commesso, e poi, alla luce di questo, se la pena, la punizione, siano state congrue.

I crimini di Izzo, e soprattutto il primo, il delitto del Circeo, si caratterizzano dal fatto che il delinquente non ne ha tratto altro vantaggio se non il piacere di commetterlo: l’assassinio vi è stato naturalmente conseguente allo stupro. La crudeltà vi era organicamente implicita, il piacere consistendo nel veder soffrire e soprattutto nel far soffrire. Ciò che costituisce il massimo delle aggravanti, anche perché la gratuità stessa del delitto lo istituisce a modello – ricordiamo: di “massacri del Circeo” ormai ne vediamo uno alla settimana.

Per capire poi se la punizione sia stata congrua, bisogna ripartire dal comportamento dell’assassino nel processo Palaia, dal quale risultava evidente che egli si sentiva perfettamente soddisfatto della sua vita in carcere, dove, grazie alle sue disponibilità finanziarie, e, hélas!, al suo carisma, poteva sentirsi, ed essere, un capo rispettato temuto e ammirato dai piccoli detenuti sommessi che cercavano in lui un appoggio. Ora, le battaglie dei radicali per un carcere più umano sono certamente nobili e condivisibili, ma ciò non può significare che il carcere debba essere una specie di grand hotel, dove la pena consiste nella pura e semplice limitazione della libertà, come è successo nella civilissima Norvegia, dove un altro feroce assassino (ma che almeno uccideva per qualche motivo) quell'Anders Behring Breivik, autore del massacro dell’isola di Utoya, il quale ha potuto protestare, e vincere, perché nella sua cella-salotto mancava la televisione – un trattamento che dovrebbe essere riservato a quanti sono in attesa di giudizio. Comunque, dopo aver visto il comportamento di Izzo nel processo Palaia, io mi sono convinto che in casi come questo, che, fra l’altro, hanno tante probabilità di essere emulati, il carcere dovrebbe essere duro: non dico infliggendo tormenti fisici, ma certamente costringendo il condannato all’isolamento o al lavoro forzoso (non forzato) poiché il lavoro manuale è forse capace di riscattare, se non di redimere, più che la semplice detenzione. E, se questo significa essere forcaiolo, accetto il titolo, aggiungendo però che è certamente indecente permettere che nel carcere qualcuno, in particolare se si chiama Angelo Izzo, possa spendere i suoi soldi per farsi una corte – come ho sentito dire che è successo per diversi capi mafia. Non è ammissibile che la ricchezza costituisca un privilegio anche nelle patrie galere.

C.M.

P.S.: Ringrazio l’avvocato Roberto Russo per le preziose precisazioni.