UNIONI CIVILI. Una rivoluzione culturale
Il 24 dicembre, giorno della vigilia di Natale, sono intervenuto a una cerimonia di “unione civile” fra due amici omosessuali: il primo, che ha 60 anni, è un attore che si è dedicato tra l’altro a rivisitare una nuova forma di teatro giapponese, il “butoh”, mentre l’altro, di 47 anni, laureato in legge, lavora in uno studio legale. C’erano moltissime persone, tante che la Sala Rossa di Palazzo Vecchio non riusciva a contenerle. Curiosi? Anche: qualcuno si era probabilmente fermato per assistere a questa seconda cerimonia che seguiva un matrimonio fra un giovanotto e una fanciulla con il classico abito da sposa lungo e bianco – unica differenza sensibile fra le due cerimonie. In entrambe la celebrante, una biondina delicata e molto poco burocratica, appariva simpaticamente emozionata nel suo breve discorso, tutto fuor che di circostanza. Ma, soprattutto nel caso dell’unione civile, il pubblico era felice e festante: dopo che la celebrante ebbe dichiarato “uniti civilmente” i due contraenti, molte voci si levarono a reclamare “bacio, bacio”, cosa che essi, vestiti in inappuntabile abito blu con tanto di cravatta a farfalla, eseguirono pudicamente con un minimo di ritrosia. Seguì un lungo applauso.
L’atmosfera gioiosa e il gran numero di partecipanti mi inducono a una riflessione che spero non inutile. Da una parte gli omosessuali non sono perfettamente soddisfatti della legge sulle unioni civili: avrebbero voluto un matrimonio, sic et simpliciter. Dall’altra gli oppositori della legge hanno fatto di tutto perché le unioni civili non fossero percepite come “matrimonio” – fallendo miseramente. E proprio questo fallimento dimostra che l’insoddisfazione degli omosessuali ha poco o nessun fondamento.
Come tutti sanno, le leggi sono fondamentalmente di due tipi: quelle che impongono limiti e divieti e quelle che istituiscono diritti, le quali ultime sono poi quelle su cui si misura la libertà di un popolo. La legge sulle unioni civili appartiene, ovviamente, a questa seconda tipologia, ma i suoi risultati vanno ben al di là dell’istituzione di un diritto e per questo credo che bisogna essere profondamente grati alla senatrice Monica Cirinnà, anche se la sua legge è stata privata della così detta “step child adoption” – stupidamente perché quasi tutti gli omosessuali amano profondamente i bambini, il che non vuol dire che siano “pedofili”, ma, al contrario, sono predisposti a essere buoni e liberali educatori – e varrà forse la pena di ricordare che Platone, primo grande e addirittura estremistico difensore dell’omosessualità, riteneva che, se l’amore omosessuale non può generare figliolanza carnale, esso però ne produce una più elevata, tutta spirituale, in quanto la “pederastia” si risolve in “paideia”, cioè in educazione e formazione. Si blatera tanto sul fatto che un bambino avrebbe il diritto di avere un padre e una madre, senza riflettere che tanti bambini certamente preferirebbero avere due mamme anziché un padre autoritario e violento e una madre dolorosa e impotente.
Nell’antica Grecia l’omosessualità era ampiamente tollerata, ma non così ampiamente diffusa come di solito si crede: lo dimostra, fra l’altro, la pittura vascolare ricca di scene di sesso fra uomini e donne, mentre qualche accenno all’amore fra uomini si trova solo in certe scene di banchetto, dove due giovani possono abbracciarsi o scambiarsi carezze. Nella Bibbia, nel vecchio come nel nuovo testamento, non si trovano esplicite condanne dell’omosessualità, a eccezione di quella implicita nella distruzione di Sodoma, mentre i padri della chiesa da Agostino a Santa Caterina da Siena vi si scagliarono contro con veemenza e, nel vecchio Catechismo Maggiore di Pio X, fra i quattro peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio, sono elencati quelli “contro natura” (naturalmente senza precisare cosa si debba intendere per “natura”) . Non non mi pare di ricordare se una esplicita e univoca condanna dell’omosessualità sia reperibile nel Corano, se non in riferimento alla storia di Lot.
Per fortuna in Italia, a quanto mi consta, non abbiamo avuto leggi penali che configurassero il “reato” di omosessualità, simili a quelle che hanno permesso in Inghilterra le infami condanne di personaggi come Oscar Wilde e Alan Turing: come è possibile che sia reato uno “stato”? solo i fatti e le azioni possono essere qualificati come reati: uno stato, una condizione sociale o naturale, non può esserlo per definizione, non foss’altro perché involontario. Solo il nazismo ha potuto farlo, estendendo agli omosessuali la ancora più tragica condanna di ebrei e zingari. I fascisti nostrali se ne sono guardati (a parte il goffo tentativo di classificare gli omosessuali come “razza”), forse rendendosi conto che ciò avrebbe significato condannare glorie nazionali come Leonardo e Michelangelo.
Come ha dimostrato la larga e festosa partecipazione all’unione civile dei miei due amici, ma anche di tante altre, documentate alla televisione pubblica da una bella e civile trasmissione L’amore è uguale per tutti, la legge Cirinnà ha definitivamente “sdoganato”, come si dice con un brutto vocabolo che in questo caso significa restituito libertà e dignità sociale agli omosessuali, che finalmente non saranno più definiti con i termini sprezzanti o ironici in uso fino a non moto tempo fa’. Oggi solo uno scarso 25% giudica “immorale” l’omosessualità. E questo, io penso, anche grazie alla legge sulle unioni civili, una di quelle leggi che, istituendo diritti, rendono la società più libera e democratica, soprattutto perché ha inciso non solo sul piano legale, ma anche, e più profondamente, su quello culturale. Per questo sarebbe giusto conferire a Monica Cirinnà una onorificenza al valor civile.
Questo articolo non ha inteso in alcun modo proporsi come un saggio sull’omosessualità, tuttavia mi pare opportuno aggiungere qualche considerazione di carattere oggettivo. Secondo l’ISTAT, in Italia gli omosessuali sarebbero tra uno e due milioni, a seconda che ci si riferisca agli omosessuali che si dichiarano tali, oppure a coloro che hanno avuto dei più o meno occasionali rapporti con persone dello stesso sesso. In ogni caso però si tratta soltanto di persone che non intendono più nascondere le loro tendenze sessuali e poiché esiste ancora molta riservatezza su tali questioni – giustamente considerate di carattere strettamente personale – non credo sia esagerato pensare che tali cifre vadano almeno raddoppiate.
Considerando poi che ormai solo il 25% della popolazione continua a considerare l’omosessualità una “malattia”, bisognerà concludere che la grande maggioranza ritiene che essa sia semplicemente una tipologia umana, seppure minoritaria, paragonabile in certo modo a quella di persone la cui statura si discosta sensibilmente dalla media. Ma, trascurando i bisessuali, è la presenza di persone che hanno avuto rapporti omosessuali più o meno occasionali ad aprire un altro ordine di problemi. Non tutti gli omosessuali sono tali “per natura”: alcuni lo sono diventati. E' noto che, in maniera più o meno nascosta, pratiche omosessuali sono particolarmente frequenti in comunità che escludono persone di sesso diverso, come i seminari e i conventi o, fino a poco tempo fa’, l’esercito o la marina. In molti paesi africani, dove vige la barbara usanza dell’infibulazione femminile, l’omosessualità maschile è particolarmente diffusa, nonostante venga severamente punita, per il semplice motivo che avere rapporti con una donna vergine, e quindi possibile moglie, è particolarmente difficile e comporta il rischio di una tremenda umiliazione. In entrambi i casi l’omosessualità nasce da mancanza di alternative, per poi stabilizzarsi, spesso anche per ragioni affettive. Ciò non toglie che la condanna moralistica sia altrettanto inaccettabile per tale omosessualità derivata quanto per quella naturale. Se non di più, in quanto essa nasce da un’assenza, da una forzata rinuncia spesso molto dolorosa, che solo in pochi riesce a sublimarsi nella castità, che del resto, il più delle volte, si risolve in autoerotismo.
POLITICAMENTE CORRETTO
Nella già complessa e intricata situazione politica del momento che stiamo vivendo si è aperto un nuovo fronte polemico, gravido delle più imprevedibili conseguenze: la questione femminile – intesa in senso grammaticale. Tutti i contendenti concordano sul fatto che affrontare questo tema comporti una svolta decisiva nella problematica connessa alla questione della parità di diritti fra uomini e donne, sia essa auspicata o più o meno apertamente rifiutata. Perché le parole sono pietre e contano molto di più delle cose.
In termini generali, il problema verte sull’opportunità, o la necessità, di trasporre al femminile quei sostantivi e quegli aggettivi che, pur essendo riferiti a un soggetto di sesso femminile, nel linguaggio corrente vengono comunemente impiegati al maschile. Ma, come è ovvio che sia, la polemica consiste soprattutto nelle soluzioni da adottare nei singoli casi dove il problema si presenta.
La rilevanza politica dell’argomento deriva direttamente dal fatto che, di recente, molte donne hanno assunto cariche politiche o amministrative finora ricoperte prevalentemente da uomini e, certamente per questo motivo, designate con sostantivi di genere maschile. Anche se, in maniera strisciante, la questione si era già posta prima, il caso scatenante va individuato nell’elezione di una donna a sindaco di Roma.
E' allora sembrato irriverente, o forse maliziosamente sessista, definire la signora Virginia Raggi, donna peraltro dalla robusta tempra virile, con il titolo di “sindaco”, quasi che, per il solo fatto che tale titolo sia di genere, grammaticalmente, maschile, la signora Raggi avesse dovuto rinunciare alla sua evidente e anche molto attraente femminilità.
Si è quindi pensato (ma è sempre difficile capire chi abbia lanciato l’idea) di chiamarla “sindaca”, più o meno consciamente appellandosi al fatto che la lingua italiana contempla già alcuni casi in cui il titolo della funzione, o dello stato, varia di genere a seconda che colui\colei che ne è investito sia uomo o donna: il più ovvio è certamente il titolo del regnante, “re” se si tratta di un uomo, “regina”, se di una donna – senza distinguere se il titolo di “regina” deriva semplicemente dal fatto di essere moglie del re o juxta suo jure, come in Italia non è mai successo, al contrario che in Inghilterra, dove, forse pour cause, il termine che designa la donna regnante non è una semplice femminilizzazione del maschile: Queen vs King. In tedesco invece effettivamente tutti i titoli attribuiti a donne comportano solo una desinenza femminile: Königin vs König.
Del resto, anche nella determinazione di stati di carattere meramente civile la definizione del portatore maschile viene lessicalmente distinta da quella del portatore femminile. Così, per quello che riguarda i membri di una coppia matrimoniale, in quasi tutte le lingue europee il maschio viene definito da un termine anche etimologicamente del tutto diverso da quello della femmina: “marito” e “moglie” in italiano, “mari” e “femme” in francese, “husband” e “wife” in inglese, “marido” e “mujer” in spagnolo. Solo il tedesco prevede che “Gattin” (moglie) sia una semplice femminilizzazione di “Gatte” (marito), ma l’uso comune preferisce dire “Mann” e “Frau”, cioè semplicemente uomo e donna.
Ma, per tornare a titoli di carattere pubblico-politico, in verità c’è un caso molto antico in cui un titolo, altissimo, è stato femminilizzato per essere stato assunto – anche se con un procedimento segreto – da una donna: la “papessa” Giovanna, che regnò con il nome di Giovanni VIII, attorno alla metà del nono secolo. Ma tale titolo non fu mai usato ufficialmente, poiché nessuno o forse solo pochissimi conoscevano il vero sesso di papa Giovanni. Ma è un caso esemplare perché il termine “papa” non poteva essere posto al femminile con il semplice impiego di una desinenza in -a (come titola un famoso libro dello scapigliato Carlo Dossi), ragion per cui si giunse all’estensione -essa, come succede ad esempio nel caso di “principe\principessa”.
Un’estensione, quella in -essa, che si è frequentemente tentati di applicare anche a titoli che sono, grammaticalmente, dei participi presenti: “presidente” è colui che, occasionalmente o stabilmente, presiede. Sarà allora il caso di dire “presidentessa” quando che chi (he\she il sublime politically correct dell’uso inglese) presiede sia femmina, così come si dice “studentessa” di una ragazza che, in un determinato momento della sua vita frequenta la scuola? E il motivo potrebbe porsi anche nel caso di un participio sostantivato che pure può designare sia uno stato sia una situazione momentanea e che viene del tutto dimenticato, mentre dovrebbe avere un valore tutto particolare: “amante”. Pure, e soprattutto se quel participio sostantivato indica una situazione stabilizzata, sarebbe importante distinguere se si sta parlando di lui o di lei: nel caso di “lei” dire “amanta”, con la desinenza in-a (visto che “amantessa” sembra proprio improponibile) sarebbe altamente significativo.
Comunque, l’impiego di tali desinenze diventa problematico soprattutto allorquando ci si riferisce giustappunto a titoli che designano cariche politiche, e che dovrebbe riferirsi a altri usi consolidati.
Di nuovo nel Comune di Roma è di grande attualità il caso di una donna che ha assunto la direzione dell’assessorato all’ambiente e che, in forza di tale carica, è stata definita non già “assessore”, ma “assessora” – certo a causa del fatto che, come racconta Edoardo Albinati in La scuola cattolica, per chi conosce ancora solo sommariamente la lingua italiana tutte le parole che riguardano soggetti femminili devono avere la famosa “desinenza in a”.
Ma, se si considerano vocaboli simili, la scelta avrebbe potuto essere diversa: il femminile di “professore”, ad esempio, è “professoressa”, non “professora”. Quindi la signora Muraro dovrebbe opportunamente essere chiamata “assessoressa”, che, oltre tutto, suona più nobile e professionale.
Non mi risulta, al momento, che il più importante dirigente di un’istituzione economica, pubblica o privata, l’amministratore delegato, sia stato trasposto in “amministratora delegata”, anche se, credo, il femminile di amministratore dovrebbe essere “amministratrice”, così come il femminile di “attore” non è “attora”, ma “attrice”. Questo specifico caso, però, potrebbe derivare da un sottile escamotage: distinguere nettamente gli attori dalle attrici permette di sostenere che le attrici sono tutte puttane (come del resto tutte le donne: non gli uomini, per la contraddizion che nol consente, o, forse, perché per gli uomini si può utilizzare un grazioso termine francese: gigolo).
Ma esistono anche interessanti casi in cui un sostantivo acquisisce quasi valore aggettivale, o di apposizione, tendendo per lo più ad assumere il significato di un giudizio. Questo succede con grande frequenza in sostantivi coprolalitici, quali “stronzo” e “merda”. Quando si dice a qualcuno “sei uno stronzo”, si può intendere o che si è comportato male o che è “sciocco”, “stupido”, aggettivi entrambi che possono essere usati come sostantivi: “sei stupido”, oppure “sei uno stupido” (appartieni alla categoria degli stupidi).
Non so quando sia invalso l’uso, ma è certo che oggi è normale insultare una donna dicendole “quanto sei stronza”, ovvero “sei una stronza”. E sarebbe interessante verificare se tale escremento abbia forma, o addirittura sostanza diverse nel caso che venga prodotto da un maschio o da una femmina.
Il caso di “merda” è diverso, sia perché il termine viene più raramente usato in forma aggettivale, mentre è abbastanza comune come sostantivo (tipo: “sei una vera merda”), sia perché potrebbe invertire i termini complessivi della questione. Per insultare un uomo bisognerebbe allora dirgli “sei un vero merdo”, ciò che succede qualche volte grazie all’uso di un accrescitivo: “sei un merdone”, o di un vero aggettivo: “sei davvero merdoso” (espressione che però fa slittare significativamente l’area semantica), ovvero ricorrendo a un giro di parole: “sei un pezzo di merda”.
Ma la cosa più importante da sottolineare è che questo esempio trascinerebbe la questione della possibile mascolinizzazione di sostantivi femminili usati per descrivere la funzione o la carica di un uomo.
E, se devo essere sincero, confesserò di aver preso lo spunto per queste audaci riflessioni proprio da qui, leggendo su “Repubblica” una lettera al direttore – le lettere al direttore di un giornale essendo la forma più modesta e civile di cercare di far valere le proprie opinioni presso un pubblico più vasto di quello del proprio salotto.
Questa lettera (di cui purtroppo non ricordo l’autore, né il giorno della sua pubblicazione) sosteneva che, quando un soldato maschio (poiché adesso ci sono anche le soldatesse – o soldate?) deve fare la sentinella – faticosa funzione che, ricordo, obbligava a stare due ore immobili in garitta nell’attesa di fare il presentat-arm quando passava un ufficiale, o il semplice attenti nel caso di un militare di truppa – quando dunque un soldato maschio è chiamato a fare la sentinella, si dovrebbe dire di lui che è “il sentinello”. Similmente la deamicissiana “piccola vedetta lombarda” dovrebbe diventare “il piccolo vedetto lombardo”. E lo stesso varrebbe per “guardia”: infatti mi è capitato di sentire qualcuno che, rivolgendosi a un vigile (maschio), usava l’espressione “signora guardia”, con possibili insinuazioni sulle tendenze sessuali dell’interpellato, impossibili se l’interpellante avesse potuto dire “signor guardio”.
Ciò che dimostra come la grammatica dovrebbe sempre e comunque adeguarsi alla realtà sessuale, o, come si usa oggi dire con un’espressione tipicamente grammaticale, “di genere” dei soggetti in questione. D’altra parte, poiché è ben noto che le lingue sono istituti artificiali, anche se sembrano evolvere come quelli naturali, sarebbe simpatico poter capire a chi va il merito, o la colpa, di certi suoi mutamenti. Il merito primo intendo, poiché la diffusione è sempre affidata al buon gusto dei media, che li impone allo spettabile e colto pubblico.
P.S.: Mi accorgo che, proponendo i mei esempi di confronto tra uomo e donna, ho sempre o quasi dato la precedenza all’uomo. Ciò che è politicamente scorretto. Avrei potuto invertire l’ordine, ciò che sarebbe stato cavalleresco, ma altrettanto politicamente scorretto, poiché la cavalleria non è che un modo gentile per far sentire alle donne la nostra superiorità di uomini. Bisognerebbe alternare, ma lo farò la prossima volta – fortunatamente non prevista.
P.S. Naturalmente Politicamente corretto, non vuole essere che un divertissement ironicamente polemico. Chi desiderasse approfondire il tema in termini scientificamente storici e linguistici, può consultare il saggio di Giulio Lepschy, Lingua e sessismo, in G.L., Nuovi saggi di linguistica italiana, Bologna, Il Mulino, 1989, reperibile anche in rete: https://iacovoni.files.wordpress.com/2009/01/lingua-e-sessismo.pdf
Aggiungo a questo recente divertissement, un più serio e ideologico vecchio scritto. Su entrambi mi piacerebbe sapere il parere della Crusca, anche se la gloriosa accademia non ha, sulla lingua, il potere della Tv e dei social. |
NERO vs NEGRO
Il problema che si pone quando ci si trova di fronte all’alternativa lessicale fra le parole negro e nero, soprattutto quando esse vengono usate con valore sostantivale, è in primo luogo di capire se la seconda, nero, è da considerarsi come un eufemismo o se si tratta semplicemente di un termine politically correct.
Del resto il discrimen è abbastanza sottile. Evitare termini volgari quando ci si trova in buona società – come sarebbe dire sedere invece di culo – è una forma di correttezza, non però certamente politica, ma semplicemente mondana; e tuttavia potrebbe trattarsi proprio di un eufemismo poiché, se vogliamo attenerci all’etimo della parola greca, il prefisso eu- indica bene, quindi dire sedere significa “parlare bene”, contro un “parlare male”, cioè in modo offensivo e poco educato. L’espressione “me lo ha messo in culo” è da evitare anche nella sua forma più delicata “me lo ha messo nel sedere”, che però potrebbe indicare che la penetrazione non è stata completa.
Quindi il parlare corretto tiene dell’eufemismo, ragion per cui l’eufemismo finisce in qualche misura per identificarsi con la correttezza, anche se non sempre con la chiarezza. Ma in qualche caso sì. Per esempio quando si dice “non vedente” al posto di cieco o “non udente” al posto di sordo, si intende dare una definizione del significato dei due termini, come sono soliti fare i dizionari, spiegando agli ignoranti che i ciechi sono proprio quelli che non ci vedono, come i sordi quelli che non odono – definizioni peraltro imperfette perché dicono solo ciò che uno non è senza spiegare cosa essenzialmente egli sia.
La questione si fa più complessa per il più magistrale eufemismo che sia mai stato inventato: “diversamente abile”, una definizione questa volta positiva, ma ricca di sottintesi. Il “diversamente abile” è, stando alla lettera, colui che ha delle capacità (abilità) non possedute dalla maggior parte delle persone. Per esempio: un paralitico sarebbe velocissimo nel correre gli Ottocentocinquanta, ma purtroppo questa distanza non è prevista fra le specialità olimpiche, per cui egli non può misurarsi né con i velocisti che corrono i Cento né con i fondisti che corrono la Maratona. Ciò che rende questo eufemismo politicamente scorretto in quanto scarica tutte le responsabilità di una sventura sul Comitato Olimpico Internazionale.
Anche se la politica in senso stretto c’entra poco, è diventato politicamente scorretto usare il solo genere maschile quando il soggetto potrebbe essere indifferentemente uomo o donna – e non so se la questione valga anche per gli animali, per esempio se si sia tenuti a dire “i gatti\gatte fanno le fusa”, così come è invece certamente offensivo dire “pittori sono quelli che dipingono quadri”, senza specificare che “pittori\pittrici sono quelli\e che dipingono quadri”. E meglio sarebbe rovesciare l’ordine, dando la precedenza al femminile, per pura cavalleria. Così, in inglese, è diventata assolutamente obbligatoria in questi casi l’espressione he\she, destinata a diventare un unico lemma heshe (pronuncia hìsci che sa un po’ di arabo). Ma del resto l’inglese è una lingua fortunata perché il genere non è segnalato dalle desinenze, cosicché State Secretary può essere sia Colin Powell che Madaleine Albraight, la cui identità femminile era peraltro discutibile. Mentre in italiano il problema ha già portato ad accanite discussioni sulla forma delle desinenze stesse: bisognerà dire “Ministra” o “Ministressa”?
Ma torniamo al nostro primo assunto: perché nero potrebbe essere considerato un eufemismo rispetto a negro? Bisognerebbe ammettere che la parola negro indica qualcosa di volgare o di sporco, mentre dicendo nero si vuol dire che una cosa è elegante e pulita. Ma le cose non stanno propriamente così perché, se è vero che gli uomini eleganti vestono di nero (almeno alle cerimonie), è anche vero che il nero è il colore del lutto, che anzi proprio dal lutto è venuto l’uso di vestire di nero (i gentiluomini poveri, che non potevano permettersi di cambiare abito di frequente, fingevano di essere costantemente in lutto), è anche vero che per insultare un negro bisogna aggiungersi l’aggettivo “sporco”. Mentre in verità il nero è il colore dello sporco: “guarda come sei sporco, hai le mani tutte nere”. E d’altra parte si dice “nero come il peccato” significando che “nero” è sinonimo di “brutto”. “Nero” è assenza di luce, quindi cecità, fisica ma anche morale e intellettuale: l’inferno è nero, anche se un poco rischiarato dalle fiamme, mentre nel paradiso la luce è abbagliante e bianca. Fino alla fine dell’Ottocento le donne belle erano per definizione di pelle bianchissima, come la “candida puella” di cui parla Catullo, mentre solo per eccezione si poteva avere una bellezza di carnagione scura, che era bella a dispetto di quel colore sbagliato: “nigra sum sedformosa”.
Ma allora come è stato possibile che un termine così pieno di connotazioni negative sia diventato politically correct? Una ragione potrebbe esserci, e sta in questo che effettivamente negro è un termine più decisamente connotato dal punto di vista razziale: anche se pochi lo sanno, non tutti i neri, sono negri, poiché il tipo negroide comporta altri tratti qualificanti, come il naso camuso, i capelli crespi e le labbra grosse, ora molto desiderate dalle nostre fanciulle che se le fanno costruire a caro prezzo. Così i somali possono rivendicare le loro origini indiane, nonostante che la loro terra assolata abbia ulteriormente scurito la loro pelle. Ma la vera ragione è alquanto diversa: in Italia nessuno che non fosse razzista si era mai sognato di considerare negro un termine spregiativo – per i razzisti ovviamente il disprezzo stava nella cosa, non nel nome. L’input, se non proprio l’ordine, è venuto dagli Stati Uniti d’America, dove, in effetti, il termine nigger veniva (viene?) usato per spregio verso la razza degli schiavi. Forse l’insofferenza verso questa parola offensiva è partita proprio dai negri, che hanno cominciato a definirsi black quasi per opposizione ai bianchi che continuavano a ritenersi padroni, o comunque superiori: ricordate il movimento del Black Power. E gli europei hanno, come al solito, prontamente obbedito sicché per gli italiani i negri sono diventati neri, mentre in Francia nègre è stato tradotto con noir. Solo gli spagnoli non hanno potuto adeguarsi perché negro vale esattamente nero – ed è un paradosso in quanto il termine americano nigger è di derivazione ispanica.
Adesso in America anche black è passato di moda, forse per una sopravvenuta sensibilità coloristica, poiché i negri non sono affatto neri, il colore della loro pelle trascorrendo da un bruno leggero a un marrone intenso a volte con sfumature di grigio o di blu. Come del resto quello dei bianchi va da un rosa-maialino a un grigio sporco, il bianco essendo il colorito patologico degli albini: sarebbe meglio tornare al viso pallido con cui, a lor volta sprezzanti ma con relativa precisione, i così detti Indiani d’America designavano gli invasori arrivati dall’Oceano (almeno nei film western). O forse perché ci si è resi conto che l’opposizione nero\bianco è troppo radicale e non permette alcun compromesso. Così adesso negli States si dice afro-americans, termine troppo complicato per gli europei in quanto i negri che più spesso si incontrano in Europa, sono per lo più semplicemente africani o, in qualche caso, afro-europei. Perciò, in media, da noi si continua a parlare di neri. Bisognerebbe sempre ricordare l’invito di Voltaire: “Et surtout pas trop de zèle”.
Se poi si intendesse che nero è politically correct in quanto eufemismo, la storia si farebbe ancora più intrigante perché bisognerebbe ammettere che il termine-base, cioè negro, designa qualcosa che non si dovrebbe neppure nominare, non almeno nella buona società, ma, se proprio si è costretti a farlo, bisogna almeno usare un termine pulito: sempre meglio “sedere”, o addirittura “posteriore” piuttosto che “culo”.
P.S.:. Se ne avessi l'autorità, v orrei consigliare alle genti di origine africana di rivendicare con orgolio, come stimmata di nobiltà, quella definizione che molti vogliono sprezzante: Negro, addirittura anche nigger. Hanno fatto così anche i romantici.
novembre 2008
TERRORISMO E TERRORISMI. UNA SINTESI
I
Secondo Edoardo Boncinelli la paura è la principale emozione che gli uomini provano.
E’ significativo il fatto che esistano tante parole che indicano tale emozione (o sentimento?), tutte di diversa derivazione etimologica: “paura” (latino “pavor”) deriva dalla radice greca “παθ -path” che indica “colpire”, da cui “πἁθος - pathos”-“passione”, mentre “timore” è legato al concetto di “τιμή - timè”, che vuol dire “onore”, ma anche “rispetto”; “terrore”, infine, deriva dal latino “terreo” il cui primo valore è “colpire”. Invece dalla parola greca che indica propriamente la paura o il terrore, cioè “φoβος - phobos” deriva soltanto “fobia” che, anche nei suoi molti composti, è riferibile piuttosto alle idee di orrore e di odio. E si potrebbe continuare riflettendo sul fatto che l’inglese “fear” sembra collegato al concetto di “attesa”, mentre il tedesco “Angst” significa prima di tutto “angoscia”. In tedesco “terrore” si dice “Schrecken”, ma per “terrorista” è invalso il termine latino “terrorist”. Non si tratta dunque soltanto di sfumature o di intensità dell’emozione, ma anche propriamente della sua qualità.
Ancora secondo Boncinelli, la paura sarebbe da sempre il principale strumento di governo – da sempre, o almeno da quando il sacro ha indotto negli uomini la paura di essere puniti per le loro mancanze e i loro peccati (anche se di recente si è proposto di invertire tale ordine, supponendo che il sacro sia derivato dalla paura di una punizione e non viceversa). E poiché, come sostiene il grande Kelsen, è la legge a creare il delitto, ne consegue che una legge senza punizione è priva di efficacia, ma anche che la gravità del delitto si misura sull’entità della pena (un poco come la qualità di un’opera d’arte si misura sulla sua valutazione di mercato), ragion per cui ridisegnare l’entità delle pene significherebbe proporre una diversa gerarchia dei delitti (o dei peccati) e quindi, più o meno indirettamente, una diversa morale.
Ma il ragionamento potrebbe anche seguire una strada opposta, partendo cioè dalla gravità del peccato (o del delitto): poiché le religioni monoteiste (o assolutiste) considerando (ovviamente) che il peccato più grave sia quello che colpisce direttamente, o, peggio, rinnega la persona del Dio, ad esso hanno conseguentemente riservato le pene più gravi. Tali peccati sono l’ateismo e l’eresia, che la Santa Inquisizione puniva con il rogo, mentre per gli Islamici il semplice essere non credenti, cioè infedeli (kafiruna) costituisce colpa, riscattabile forse con la conversione. In questo caso peraltro la religione si identifica con uno stato – per gli Ebrei in tempi biblici con il popolo, ciò che rendeva gli altri semplicemente esclusi.
Tutto questo permette di capire come – e di nuovo con un processo inverso – in epoca moderna lo Stato abbia potuto essere concepito come una religione, in un caso e in un certo senso garantita dall’esistenza di un Ente Supremo (Robespierre) che però non assumeva l’aspetto di un Dio legislatore e, tanto meno, provvidenziale. Mi riferisco, evidentemente, da una parte ai rivoluzionari francesi del 1793 e dall’altra al regime nazista come a quello staliniano.
E’ ben noto infatti che, con la legge dei sospetti (si noti: dei “sospetti”, non dei colpevoli) votata dalla Convenzione il 17 settembre 1793, il terrore venne posto all’ordine del giorno. Si può dire che questa sia la data ufficiale della nascita del terrorismo come esplicito strumento di lotta politica, di legislazione e, più tardi, di guerra. Nell’antichità quasi tutti gli eserciti sterminavano il nemico sconfitto: conquistata Gerico, Giosuè vi uccise tutti quanti vi si trovavano, uomini donne bambini, su esplicito ordine del Signore; e in modo non diverso si comportavano i greci – furono solo i romani a introdurre il concetto di “parcere subiectis et debellare superbos” (Virgilio). Ma non si trattava di terrorismo: era semplicemente il destino dei vinti.
Al contrario, il terrorismo divenne esplicito strumento di guerra con il secondo conflitto mondiale – per entrambi i belligeranti: i bombardamenti tedeschi su Londra e Coventry, già nel 1940, fino a quelli dei missili V1 e V2, non miravano affatto a colpire obiettivi militari o industriali, ma soltanto, e dichiaratamente, allo scopo di stroncare il morale della popolazione. Non diversamente si comportarono gli alleati bombardando le città italiane e tedesche, anche se la distruzione di Dresda e di Würzburg, realizzate a vittoria praticamente ottenuta, potrebbero avere anche il significato di una punizione o della volontà di distruggere il popolo nemico. Puro terrorismo, ma ancora funzionale alla vittoria, furono le bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki, che contenevano una chiara minaccia: se non vi arrendete distruggeremo una a una tutte le vostre città, sterminando l’intera popolazione.
Anche certe guerre di liberazione nazionale furono condotte utilizzando anche lo strumento del terrore, ad esempio quella irlandese o quella algerina, i cui guerriglieri colpirono spesso i civili francesi residenti in Algeria, in quanto considerati occupanti, mentre colpire obiettivi civili in Francia ebbe un significato più propriamente terroristico.
Forse sul modello algerino, i terrorismi politici (e magari perfino quelli malavitosi) dei giorni nostri (le cui origini più remote vanno forse cercate nel nichilismo russo del primo Novecento) hanno cercato di proporsi come guerre di liberazione: lo indicano già i titoli assunti di Brigate Rosse, Unità Comuniste Combattenti, Rote Armée Fraktion, oppure, sull’altra sponda, Nuclei Armati Rivoluzionari. Giacché, negli anni Settanta e Ottanta del Novecento, fiorirono iniziative terroristiche di destra e di sinistra che se, significativamente, di rado si scontrarono fra di loro, ebbero però condotte militari molto diverse, difficilmente assimilabili sotto il concetto di terrorismo.
Le Brigate Rosse colpirono sempre e soltanto obiettivi istituzionali, magistrati e poliziotti, oppure individui ritenuti collusi con il potere, come il giornalista Tobagi o il sindacalista Guido Rossa, o ‘traditori’ come Roberto e Patrizio Peci, talché spesso più che di intimidazioni volte a suscitare il terrore nella popolazione, tali delitti ebbero, o pretesero di avere, il valore di punizioni – assumendo quindi il valore di ‘leggi’. In effetti, l’unica operazione di sapore veramente militare, fu il rapimento di Aldo Moro, il cui significato politico stava tutto nel pretendere una sorta di riconoscimento come alternativa allo stato, come veri ‘nemici’.
Ben diversa, e anzi quasi opposta, fu la condotta delle organizzazioni terroristiche di destra: le loro stragi ebbero sapore puramente terroristico e per questo sembra non avessero bisogno di rivendicazioni come neppure di elaborazioni ideologiche, di cui furono invece tanto feconde le BR, anche se, paradossalmente, il termine “rivoluzionario” compare solo nella principale di tali organizzazione, i NAR. Così, le loro operazioni terroristiche poterono spesso venir attribuite alla mafia, con cui il terrorismo politico di destra certamente ebbe stretti legami.
Quando, nel 2001, al-Qaeda distrusse le torri gemelle, si trattò di una dichiarazione di guerra, in qualche modo simile a quella implicita nell’attacco giapponese a Pearl Harbour. Lo dimostrano gli strumenti usati (una guerra aerea!) come gli obiettivi colpiti, altamente simbolici: le torri simbolo del capitalismo americano e il Pentagono centro della potenza militare. Il fatto poi che le torri fossero abitate esclusivamente da personale civile chiarisce l’intenzione di condurre una guerra terroristica, simile a quella del 1939-45, ma anche che il nemico non è soltanto lo stato americano, ma anche il suo popolo, un popolo di infedeli che non solo deve essere terrorizzato, ma può o deve venir tranquillamente distrutto: certi conquistatori islamici dell’India, tra il XIII e il XVI secolo, si erano comportati in modo simile, distruggendo templi e sterminando popolazioni.
Ora, al Qaeda non era uno ‘stato’, ma certamente ambiva a diventarlo, come Bin Laden voleva esserne il capo (il duce, il sultano) e non certamente per motivi economici (viste le sue già sterminate ricchezze) nella prospettiva di dominare il mondo imponendo il suo potere e la sua fede: l’antica e ritornante ambizione di creare un impero universale,
Uno stato è invece il Daesh (Isis), ed è inutile parlare di “sedicente” stato islamico: uno stato è uno stato, comunque si sia formato e anche in assenza di riconoscimento internazionale, e il califfo Abū Bakr al-Baghdādī non ha certamente ambizioni e scopi molti diversi da quelli di Bin Laden, con il vantaggio di essere in grado di condurre una vera guerra, con metodi non solo terroristici. C’è dunque una guerra sul campo – quella scatenatasi a margine del conflitto civile siriano e non certamente per motivi economici come pensano gli ingenui ripetitori di un marxismo semplificato e involgarito: il petrolio, figuriamoci!, è uno strumento non il fine. Semmai per motivi prevalentemente politico-religiosi: gli eventi storici non hanno mai una sola causa e neppure un’unica finalità.
Comunque, a questa guerra sul campo se ne è affiancata una seconda, di carattere dichiaratamente terroristico, condotta nel campo del nemico, ma con modalità e mezzi inediti e straordinariamente originali, nella quale i protagonisti si sentono soldati di uno stato fisicamente lontano e martiri di una fede ritrovata o, spesso, inventata. Ma questi ‘soldati’ sono di fatto cittadini dei paesi dove vivono, e, in questo senso non si differenziano dagli adepti delle BR o dei NAR se non in quanto appartengono non a un’associazione politica, ma a comunità etnico-religiose non segrete, ma, al contrario facilmente identificabili – con l’eccezione dei casi, per fortuna rarissimi, di vere conversioni. Con conseguenze dirompenti poiché quelle comunità, già percepite da molti come un corpo estraneo vengono ora considerate, da quei molti, come comunità nemiche, se non, addirittura, come eserciti nemici, a dispetto dello slogan, o della semplice constatazione, che non tutti gli islamici sono terroristi. Anzi, soltanto una minuscola parte, sufficiente però a scatenare un terrore simile a quello a suo tempo scatenato dalle organizzazioni fasciste, in quanto non colpisce le istituzioni ma, indiscriminatamente, tutti i cittadini in quanto infedeli, le eventuali vittime islamiche essendo considerate un ‘danno collaterale’, se non una punizione per gli ignavi e i traditori.
Ma ciò che soprattutto caratterizza questo nuovo terrorismo è certamente la sete di martirio che ha permesso di avvicinare questi nuovi martiri (shahid) da una parte ai martiri cristiani, il cui martirio però non contemplava mai il suicidio, e dall’altra ai kamikaze giapponesi, veri soldati combattenti, che si facevano morire per l’imperatore e per la propria gloria, mentre i terroristi islamici lo fanno per conquistare il paradiso, e quindi per un premio di incommensurabile valore. Morire per un ideale è sempre stato considerato glorioso (“chi per la patria muor \ vissuto è assai”), ma le fedi non sono comparabili con gli ideali: non c’è né ragionamento né prova che le possa scalfire.
Ultimi commenti
Grazie, Cesare, non conoscevo il Teatro Povero di Montichiello, l'articolo mi ha regalato molte cose
Grazie Cesare per il bell'aricolo su Andrea Cresti e sul Teatro Povero di Monticchiello, che ho avuto la fortuna di vedere diversi anni fa
Grazie Cesare x questo articolo che celebra una infinita ricchezza umana artistica volata via in questo tempo buio in cui Thanatos si aggira indisturbato per le strade.....
Bellissimo articolo scritto con il cuore...grazie per averlo condiviso.