IN QUESTA SEZIONE I CONTRIBUTI DI AUTORI DIVERSI, DIRETTAMENTE PROPOSTI O INVITATI
TURCHI, Pinocchio
Roberta Turchi, Pinocchio contro Firenze capitale.
Sono tornata a Pinocchio qualche anno fa in occasione di un corso di Letteratura italiana rivolto agli studenti di Scienze della Formazione Primaria. Durante una lezione mi lasciò perplessa un passo del capitolo XVIII, laddove al burattino, arrivato con il Gatto e la Volpe nella città di Acchiappacitrulli, si presenta uno spettacolo davvero strano:
Dopo aver camminato una mezza giornata arrivarono a una città che aveva nome Acchiappacitrulli. Appena entrato in città, Pinocchio vide tutte le strade popolate di cani spelacchiati, che sbadigliavano dall’appetito, di pecore tosate, che tremavano dal freddo, di galline rimaste senza cresta e senza bargigli, che chiedevano l’elemosina d’un chicco di granturco, di grosse farfalle che non potevano più volare, perchè avevano venduto le loro bellissime ali colorite, di pavoni tutti scodati, che si vergognavano a farsi vedere, e di fagiani che zampettavano cheti cheti, rimpiangendo le loro scintillanti penne d’oro e d’argento, oramai perdute per sempre. In mezzo a questa folla di accattoni e di poveri vergognosi, passavano di tanto in tanto alcune carrozze signorili con dentro o qualche volpe, o qualche gazza ladra, o qualche uccellaccio di rapina (cap. XVIII).
Siamo alla metà esatta del romanzo (in tutto Pinocchio ha 36 capitoli); salvato dalla Fata Turchina, dopo essere stato appeso dagli assassini a un ramo della Quercia grande, Pinocchio si propone di tornare a casa, quando per la seconda volta si imbatte nei due compari che, con la promessa di guadagni strabilianti, già si erano presentati a lui reduce dall’avventura occorsagli presso Mangiafoco (cap. XII). Per le strade di Acchiappacitrulli si aggira una fauna singolare. Fino a questo momento il bestiario del romanzo ha coinciso, più o meno, con quello della favola esopica; ora gli animali presentano significative particolarità: le pecore sono «tosate», le galline non hanno più le «creste» e i «bargigli», le farfalle hanno venduto le «ali», i pavoni sono «scodati», i fagiani hanno perso «le loro scintillanti piume d’oro e d’argento» (p. 66). A questi animali, più o meno nobili, tutti ugualmente spogliati dei loro segni distintivi, Pinocchio non sembra far caso; o meglio li «vede» senza guardare e quindi senza trarne le conclusioni. Essendo alle sue prime esperienze di vita non padroneggia il linguaggio figurato, pertanto non coglie il significato nascosto delle cose; non si accorge che le «pecore tosate» stanno a rappresentare per analogia la massa dalla popolazione sottoposta «a un prelievo fiscale vessatorio e arbitrario» e così depauperata «delle risorse economiche», i pavoni le persone vanitose e superbe, anche per la loro nobiltà; ancora non sa che le galline – solitamente emblema della stupidità – sono la preda preferita delle volpi e delle faine che si aggirano di notte intorno ai pollai. Parimenti ignora che nel linguaggio popolare con «fagiano» si intende una persona boriosa e scioccamente presuntuosa o un individuo che si fa pelare. Anche le farfalle sono di altra natura e il sostantivo generico dei lepidotteri è usato metaforicamente come sinonimo di cambiale. Molti, soprattutto i meno giovani, l’hanno sentito dire (anche da Totò in La banda degli onesti); ma ciò che importa nel caso specifico è che già al tempo di Collodi, nel Tommaseo-Bellini al lemma «farfallino» era registrato il significato traslato del termine: «farfallino e anche farfallina chiama il popolo la cambiale. [Rig.] In questo mese ci ho una farfallina che mi scade. – E anche la citazione portata dal messo del Tribunale».
A decodificare lo squallido quadro provvede, in parte, il narratore: «In mezzo a questa folla di accattoni e di poveri vergognosi – spiega – passavano di tanto in tanto alcune carrozze signorili con dentro o qualche volpe, o qualche gazza ladra, o qualche uccellaccio di rapina» (p. 66). L’ aggiunta esplicativa individua nella folla due categorie di persone di estrazione sociale diversa: distingue gli «accattoni», cioè chi «fa mestiere dell’accattare», dai «poveri vergognosi», ovverosia da quei nobili che essendo caduti in miseria venivano soccorsi segretamente perché la loro origine e la vergogna per lo stato in cui erano caduti li trattenevano dal chiedere l’elemosina. Al primo gruppo sono da ascrivere gli animali domestici e da cortile, al secondo i pavoni e i fagiani. Non solo, mediante l’intervento della voce narrante, che passa con agilità da un piano all’altro del linguaggio, la scena è attraversata con velocità dalla presenza minacciosa «o [di] qualche volpe, o [di] qualche gazza ladra, o [di] qualche uccellaccio di rapina». Enrico Mazzanti illustrò il passo attenendosi al modo di vedere del burattino/bambino; in realtà quegli animali hanno natura antropomorfa, hanno facce e profili umani che richiamano le illustrazioni dei libri per ragazzi, ma soprattutto le vignette satiriche della stampa di quel tempo, di cui Collodi era stato ed era protagonista
A dire che Pinocchio si presta a più livelli di lettura, diciamo una cosa ovvia; ma la sua capacità di parlare a persone di tutte le età fu colta immediatamente dai suoi primi recensori e negli oltre suoi 130 anni di vita, ha attraversato tutte le stagioni della critica, è diventato un vero e proprio libro di culto contraddicendo«alla legge generale secondo la quale i libri migliori approdano allo scaffale dei ragazzi “per caduta” dallo scaffale degli adulti» (Rodari) La prosa fortemente dialogata, teatrale, intrisa di oralità, presuppone una lettura ad alta voce; la presenza di un adulto che legge, adeguando il tono della voce ai personaggi e alle situazioni, e quella di un bambino che ascolta, apre il testo a due ricezioni diverse e simultanee.
Allora viene da domandarsi: quando Pinocchio apparve – sia sul «Giornale dei bambini», sia in volume – quali riflessioni, quali idee, quali associazioni saranno venute in mente a un italiano, a un toscano e ancor prima a un fiorentino del 1881-1883 mentre leggeva ai suoi figli, ai suoi nipoti, ai suoi scolari la pagina da cui siamo partiti? Proviamo a pensare a una persona ben informata, per esempio ad un lettore del «Fanfulla» che comprava l’edizione domenicale del giornale romano con il supplemento dedicato ai ragazzi: il «Giornale dei bambini», appunto, dove Pinocchio fu pubblicato a puntate. A lui il nome di Collodi era familiare, almeno per gli articoli di intervento sulla cronaca politica presenti sulle colonne del quotidiano; nel caso in cui avesse seguito l’attività dello scrittore non avrebbe potuto fare a meno di cogliere un’altra coincidenza: la Storia di un burattino usciva pressoché in contemporanea con la prima edizione di Occhi e nasi, una raccolta di articoli collodiani, al cui interno una sezione intitolata Gli ultimi fiorentini, riuniva brani composti in anni diversi, ma che hanno sullo sfondo il periodo di Firenze capitale. Patriota, combattente a Curtatone e Montanara nel 1848, poi volontario nella guerra del Piemonte contro l’Austria, da «mazziniano realisticamente convertito alle ragioni dell’annessionismo monarchico», Collodi aveva salutato con entusiasmo dalle colonne della «Nazione» l’esito del plebiscito del 15 marzo 1860 (La notte di giovedì (15 marzo 1860), 18 marzo 1860). Poi le cose erano cambiate. La morte di Cavour era stata un duro colpo per il giovane Stato unitario e la questione romana era sempre sospesa. Un protocollo segreto della Convenzione tra Italia e Francia firmata a Parigi il 15 settembre 1864 aveva stabilito che le truppe di Napoleone III avrebbero sgombrato il territorio pontificio a patto che il re d’Italia avesse decretato il trasferimento della capitale da Torino ad un’altra città. La commissione di guerra individuò in Firenze la città più adatta per trasferirvi la capitale «per la sua posizione centrale, per essere coperta dagli Appennini e abbastanza lontana dal mare». Accolto con reazioni contrastanti, l’accordo fu criticato da parte dei democratici, ed anche i moderati fiorentini manifestarono riserve. Carlo Collodi, senza diventare un «risorgimentale pentito» (Bertacchini), al pari di un Guerrazzi, di un Petruccelli della Gattina, di un Faldella, di un Gualdo, anche lui non guardò con favore alla decisione. Espresse ripetutamente il suo punto di vista su vari quotidiani con articoli successivamente riuniti e nei già citati Occhi e nasi (1881) e in Note gaie (1894). La capitale provvisoria, che contrariamente alle previsioni e al costume italiano quella volta fu provvisoria davvero, fu da lui giudicata una «brutta malattia che lasciò al Municipio fiorentino un ingorgo, fra la coscia e l’inguine, di circa duegento milioni di debito». Così leggiamo in Firenze e i fiorentini; ma le pagine più amare, più dense di aspra polemica sono quelle dedicate alla Storia di Firenze dalla creazione del mondo fino ad oggi:
«Il secondo marito che Firenze s’era rassegnata a prendere per marito provvisorio (come fanno tante) pareva nel fondo un brav’uomo: ma gli amici che egli aveva portato seco, che uggiosi, che irrequieti, che brontoloni! Arrivati in casa alla sposa, non trovarono nulla di fatto bene! La casa era troppo stretta, le scale troppo alte, le finestre troppo larghe, la facciata troppo nera, l’arrosto troppo cotto, lo stufatino troppo crudo, il vino troppo caro, il dialetto troppo fiorentino: insomma, un piagnisteo continuo dalla mattina alla sera.
Allora il nuovo marito disse alla moglie:
- Sii bonina e fa’ di tutto per contentarmeli questi poveri malati di fegato!
- Contentiamoli pure; ma dopo chi paga le spese?
- Se non c’è altri, pagherò io.
Detto fatto. Firenze chiamò subito uno sciame di manifattori e pose mano a un’infinità di lavori.
Quand’ecco che una bella mattina, il marito, svegliatosi, disse di punto in bianco alla moglie:
- Sai la notizia? Domani vado a metter casa a Roma.
- A Roma? Vien via, grullo – rispose la moglie – o che estro è codesto?
- Oportet! –rispose il marito (quel briccone, quando voleva imbrogliare la moglie, parlava sempre in latino).
- E i debiti che ho fatto?
- Quant’hai speso?
La moglie invece di fare un conto perbene, buttò una cifra a caso, che il marito pagò subito e con buonissima maniera; e poi se ne andò.
Da quel giorno cominciarono per Firenze le grandi tribolazioni! I suoi creditori scappavano fuori da tutti i buchi, e come fare a pagarli?
Allora scrisse al suo divorziato marito, a Roma, dicendogli:
- Ti avverto che quando feci il conto delle spese, sbagliai.
- Peggio per te –rispose lui –non dovevi sbagliare. Quanto ti manca per saldare i tuoi credito
- Circa 170 milioni.
- Ebbene: eccoti quarantacinque milioni e non se ne parli più.»
Non è una «buffa storia» (Marcheschi), questa è una tristissima storia, poiché qui Collodi narra in chiave umoristica e con facile allegoria della Questione di Firenze, della grande crisi che investì la città dopo il trasferimento della capitale a Roma. Nel dialogo tra Firenze, nelle vesti di una moglie spendacciona, e il governo italiano, impersonato da un «marito vagabondo» e superficiale, l’impiego del frizzo, risorsa tipicamente fiorentina, è un modo per reagire alla sciagura, serve a prendere le distanze da essa per non lasciarsi abbattere e affrontarla con coraggio. Il vivace scambio di battute tra i due coniugi riassume la lunga trattativa tra gli amministratori fiorentini e il governo centrale iniziata nel maggio 1871. L’ «equo compenso» di 1.217.000 lire annue ottenuto nel 1871 fu una cifra del tutto insufficiente a ripianare le spese affrontate per la trasformazione urbanistica della città, tanto che nel giugno 1878, di fronte a un deficit calcolato in 25.635.390 lire e 90 centesimi, Ubaldino Peruzzi rassegnò le dimissioni con l’intero consiglio comunale, dopo aver dichiarato il fallimento del Municipio. Lo stato in cui venne a trovarsi la «città derelitta» fu rievocato nella relazione alla Camera da Adriano Mari in pagine commosse attraverso le quali il deputato fiorentino patrocinava per Firenze una legge che stabilisse un supplemento di indennità:
«Quale e quanto ne sia il danno economico lo dica lo squallore della derelitta città a chi abbia occhi per vederlo e animo sincero e leale per non negare ciò che di per sé è evidente. Il danno patrimoniale del Municipio, tutto che gravissimo, è nulla a comparazione del misero stato, al quale è ridotto in Firenze ogni ramo di industria e di commercio, paralizzato da quell’eccesso di tributi, che fu conseguenza necessaria delle ingenti spese sostenute dal Municipio per la capitale […]. E quale sia la esorbitanza delle tasse in Firenze lo dice la inesorabile eloquenza delle cifre. […] L’incomportabile onere di tante gravezze e spese ha omai prodotto i suoi tristissimi effetti, e ci sentiamo stringere il cuore al pensiero delle condizioni demografiche della misera Firenze [che] acquista il primato del fallimento e del suicidio. Da 2134 reati nel 1869 si sale ai 4587 nel 1877, e il 33 per cento di essi contro la proprietà: e nello stesso anno, mentre la popolosa Milano ha 69 fallimenti, Firenze ne ha 78; mentre Milano ha 38 suicidi, e Torino ne ha 35, Firenze sola ne ha 60, e quasi tutti per dissesti patrimoniali.
Ed intanto la miseria si diffonde e diventa una piaga immedicabile della città. L’accattonaggio per le pubbliche vie e alle porte delle case dei cittadini si fa ogni dì più frequente. […] Chi potrà dire lavora, o risparmia a chi non trova lavoro, e non ha nulla da risparmiare? Il valore dei pegni fati nel 1877 all’Azienda dei presti è quasi il doppio dei pegni consueti prima del trasferimento della capitale a Firenze. Dal 1871 al 1877 più che raddoppiato il novero dei sussidiati dalla Congregazione di carità di S. Giovanni Battista, come pure la spesa dei sussidi di pane. Anco più miserevole è il progressivo aumento di sussidi di latte alle madre e di baliatico per gli ammessi ai brefotrofi. La Congregazione di carità nel 1865 spese lire 21.060,87, e nel 1877 spendeva lire 116.968,52!
Il numero dei poveri alienati di mente, accolti nell’Ospedale di Bonifazio, è fatto maggiore di quel che fosse nel 1869, quando vi si ricevevano anco i mentecatti delle provincie di Pisa, Livorno e Arezzo, e quando la popolazione di Firenze per la venuta nella capitale era assai più numerosa. I morbi seguaci della fame accrescono il numero degli infermi, accolti nell’Arcispedale di S. Maria Nuova, che dal 1869 al 1877 si eleva in modo spaventoso, poiché vediamo la media giornaliera dei malati salire da 91 a 1166, quantunque partita la capitale e diminuiti i lavori, emigrasse tanta popolazione avventizia di lavoratori, e cessasse tanta occasione di malattie! […] A dì 12 giugno 1878».
La testimonianza di Mari è quella di un liberale conservatore, ma concorda con altre di origine diversa, sebbene il tono cambi per effetto dell’appartenenza politica. Sulle colonne di «Satana», ad esempio, foglio «politico quotidiano per il popolo» di ispirazione socialista, legato alla massoneria, diretto da Carlo Alberto Ghivizzoni, Lorenzo Piccioli-Poggiali, Oreste Codibò, Zanobi Cioni, mentre si accusava di tradimento Ubaldino Peruzzi, si denunciavano casi di suicidio di operai e di piccoli artigiani in miseria.
Su questo sfondo, va proiettata la Storia di Firenze dalla creazione del mondo fino ad oggi, e a questo sfondo va riportato il passo di Pinocchio da cui abbiamo preso le mosse: solo così quel quadro di squallore recupera la sua pregnante allusività. L’iconografia della pagina, adeguata alla fascia di età dei destinatari diretti del romanzo, i ragazzi, ai fiorentini adulti parlava di un passato appena trascorso, spargeva sale su ferite ancora fresche. Essi potevano rispecchiarsi in quegli animali stremati e identificare nelle volpi, nelle gazze ladre, negli uccelli di rapina in carrozza gli usurai e gli strozzini che erano arrivati a prendere «il 60, l’80 e talvolta perfino il 100 per 100» sul denaro prestato.
A questo punto, anche il Gatto e la Volpe ci appaiono sotto luce diversa. I due predatori, che affettando disinteresse convincono Pinocchio a seminare gli zecchini nel «Campo dei miracoli» con la promessa di una fulminea ricchezza, riconducono al clima di speculazioni e di affari degli anni 1865-1870, al ruolo svolto in quel periodo dalle società bancarie ed edili per la raccolta di denari da investire in terreni agricoli diventati edificabili (i “campi dei miracoli”, per l’appunto). Muovendoci su questa linea potremmo addirittura azzardardarci a dare un nome ai due imbroglioni. Nel saggio su Patrimoni familiari e società anonime (1861-1894): il caso toscano (1976), tra «i molti speculatori», che sfruttarono la «favorevole congiuntura creatasi a Firenze per cercare una via di facile arricchimento», Romano Paolo Coppini ricorda i fratelli Giuseppe e Giacomo Servadio. Con la fondazione della «Banca del Popolo» e della società per la «Costruzione di case per la classe operaia», essi si approfittarono dei piccoli risparmiatori «i quali “col risparmio e la buona condotta” avrebbero avuto modo di “conseguire una abitazione stabile ad un modico prezzo”». In realtà, gli appartenenti ai «ceti popolari non alloggiarono mai in nessuna delle costruzioni», poiché esse, edificate «per borghesi abbienti» furono accaparrate «dalla burocrazia piemontese, dai commercianti, dai borghesi piovuti a Firenze al seguito della capitale». «Alle classi meno abbienti, espropriate e cacciate da tante zone da “risanare” – prosegue Coppini – non restò che prorompere in qualche non coordinata agitazione e contentarsi degli alloggi di fortuna», le famose “case di ferro”.
La sorte di Pinocchio, ingenua vittima della filantropia interessata del Gatto e la Volpe (ricordiamo che essi dicono di lavorare «unicamente per arricchire gli altri» provocando il commento del burattino: «Che brave persone!»), non può non farci pensare, dunque, a quanti si lasciarono trasportare dal clima di euforia collettiva, illudendosi di realizzare il loro sogno di ricchezza.
Mauro Sbordoni
Veramente interessante. Approfondito e documentato e scritto in maniera scorrevole e accattivante. L'amarezza è tutta "collodiana". E si conviene ai tempi in cui viviamo...