SANDRO LOMBARDI ATTORE-SCRITTORE
L’ultimo libro di Sandro Lombardi (Puro teatro - scritti lettere e incontri fra scena, letteratura, politica e storia dell’arte, Cue Press 2016) non è, come i precedenti, di cui dirò poi, un testo organico, ma un’ampia raccolta di articoli e saggi pubblicati in varie occasioni tra il 1990 e il 2015 – a mia conoscenza ne manca soltanto uno: la premessa al testo dello spettacolo basato su On the road, il romanzo di Kerouac che fu una bibbia della beat generation, articolo che peraltro risale al 1983.
Il contenuto del volume è già tutto nel sottotitolo, ma vale la pena di ricordare che i testi sono disposti in ordine cronologico, quasi a tracciare la storia della presenza letteraria nella carriera dell’attore, anche se, in verità, essi avrebbero potuto altrettanto bene essere raggruppati per tipologie, a sottolineare, invece, quali e quanti sono stati gli interessi e i turbamenti dell’autore nel corso di quegli anni. Non per nulla l’introduzione e un importante saggio del 2006 (Sparsi pensieri sulla zona grigia) sono incentrati su una problematica politica, a sottolineare il fatto che l’artista non vive nella sua ‘torre d’avorio’, ma, al contrario, è profondamente preoccupato dei destini della società in cui vive, così come del ruolo che il teatro potrebbe svolgervi.
Ma d’altra parte colpisce che ben sei scritti su 18, vale a dire uno su tre, siano ricordi di amici scomparsi, la cui presenza è ancora viva e attiva nell’anima di chi scrive, nel quale essa è rimpianto bensì, ma al tempo stesso gratitudine, si potrebbe dire, proprio per il rimpianto, cioè per il permanere dell’amicizia e della tenerezza.
Il più esteso di tali ricordi è dedicato a Luca Ronconi – il maestro dei maestri (fermo restando che il primo maestro rimane pur sempre Federico Tiezzi, il cui atteggiamento vagamente paterno nei confronti dell’allievo è tutt’oggi percepibile). Non per nulla il ricordo di Ronconi è in versi, i versi liberi mutuati dalla poesia di Mario Luzi che sono scorrevoli come prosa alla lettura, ma chiaramente ritmati alla recitazione ed è stato stampato anche in un volumetto autonomo. Infatti il testo ha carattere esplicitamente narrativo: è un racconto dei giorni passati con Ronconi e culminati nel momento in cui entrambi avevano rischiato la vita, concedendosi però dei “tempi supplementari”, accolti quasi come un inaspettato o, chissà, immeritato dono del destino o del buon Dio.
Ma lo scritto contiene altresì ampi suggerimenti e suggestioni di ordine teatrale, che torneranno nel saggio dedicato a Proust – e non si sa bene se si tratta di citazioni o di autonomi sviluppi di quelle suggestioni. Perché almeno tre saggi consistono in analisi letterarie straordinariamente penetranti e illuminanti di testi drammatici, forse perché il teatro, la prospettiva scenica, vengono usati come grimaldello critico – forse si può parlare di “lettura scenica”, concetto che avevo proposto tanti anni fa. Così, nel saggio dedicato al dannunziano Sogno di un mattino di primavera, in cui Lombardi darà una mirabile interpretazione della Demente, che non so se e quanto possa essere ispirata a quella di Eleonora Duse, ciò che viene soprattutto messo in risalto è quell’assolutezza della forma e dello stile che qualcuno ha denunciato come ‘formalismo’ o autocompiacimento (Benedetto Croce ha definito D’Annunzio “un dilettante di sensazioni”). Al contrario nel saggio dedicato al pirandelliano Non si sa come, il dramma viene inquadrato nel momento storico in cui fu prodotto, ma al tempo stesso riportato alla situazione politico-sociale che stiamo vivendo. In entrambi i casi diventa evidente quanto Sandro Lombardi potrebbe essere definito un ‘interprete creatore’.
Dunque questo piccolo libro o, se si preferisce, questa raccolta di saggi non è soltanto funzionale alla conoscenza dell’evoluzione intellettuale e artistica dell’attore, ma è anche un piccola miniera di spunti e di suggestioni di valore storico, letterario e politico.
Il suo primo libro (Gli anni felici. Realtà e memoria nel lavoro dell’attore, Garzanti 2003) Lombardi lo aveva pubblicato a 52 anni, quando cioè era ormai riconosciuto come uno dei maggiori esponenti del tetro italiano – e a me piace dire come ‘grande attore’, ma senza dare all’abusato aggettivo un valore comparativo o, peggio, superlativo, ma solo per ricordare come egli appartenga alla linea del ‘grande attore’ ottocentesco, da Gustavo Modena a Tommaso Salvini a Giovanni Emanuel. Si tratta, in questo caso, di un ‘grosso’ libro di più di 350 pagine, costato otto anni di lavoro e di carattere sostanzialmente autobiografico.
Bisogna dire che molti attori, tra cui i ‘grandi’ ricordati sopra, hanno scritto le loro autobiografie, da mademoiselle Clairon, l’attrice prediletta di Diderot, che vi rivendicava anche il suo diritto a essere donna dai liberi incontri amorosi, a Sarah Bernhardt, a Tommaso Salvini e Cesare Rossi, fino ad Arnoldo Foà. Ora le autobiografie sono quasi fatalmente Bildungsromane, romanzi di formazione,il cui modello insuperato è ovviamente rappresentato da Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister (Wilhelm Meisters Lehrjahre), a parte che non sono romanzi, ma la differenza è più sottile di quanto si possa immaginare. Ma, se posso dire, nessuna delle autobiografie citate sono ‘di formazione’ quanto questa di Sandro Lombardi.
A provarlo basterebbe il ruolo centrale riservato ai maestri, dalle giovani professoresse in cappotto rosso, che ricordano tanto la deamicissiana maestrina dalla penna rossa, a Roberto Salvini, a Federico Tiezzi, primo maestro almeno dal punto di vista teatrale. Del resto il terzo capitolo si intitola “apprendistato” (Lehrjahre!), ma in verità l’intero il percorso lo è: gli esami non finiscono mai – ma non è questo:
è come se tutte le persone incontrate (e sono folla) dalle più famose alle sconosciute fossero in qualche misura dei maestri. Così come lo sono le creazioni e gli eventi – le opere e i giorni, verrebbe da dire. Perfino le città, spesso descritte con minuziosa analisi o con folgorante sintesi. E’ in particolare il caso del confronto tra Firenze e Venezia, che richiama quello di Heinrich Heine nel cui Italienische Reise Firenze veniva descritta come la città degli uomini duri e forti, una città monocroma, tutta di pietra, mentre Venezia sarebbe la città del piacere di vivere, tutta di marmi vivacemente colorati; per Lombardi, invece, Firenze è la città della prospettiva a fuoco centrale, la città di quella sorta di ‘ragion prospettica’ che tanta parte ha avuto nell’evoluzione della scenografia teatrale, di fronte alla quale Venezia appare come un inestricabile intrigo di callette e di campielli, dove il piacere e l’intelligenza consistono nel perdersi.
Ma veniamo all’altro tema centrale del libro, quello enunciato nel sottotitolo, dove quella precisazione “nel lavoro dell’attore” sembra quasi pleonastica e insieme riduttiva. Ci si chiede se realtà e memoria siano due concetti oppositivi, o se l’uno sia compreso nell’altro, ma quale in quale? La memoria è parte della realtà o la realtà si risolve nella memoria? Però se è vero che quel “nel lavoro dell’attore” (ovvia citazione di Stanislavski) è in certo modo pleonastico, non è altrettanto vero che sia riduttivo: non solo o non tanto perché il libro è il Bildungsroman della vita di un attore, quanto perché “la memoria è… la sostanza stessa su cui si fonda l’arte dell’attore”, “dell’attore”, non: di un attore.
La memoria è considerata nelle sue diverse declinazioni: la memoria attiva, che è il richiamare volontariamente alla mente un testo come un evento, ma anche la memoria emotiva di Stanislavsky o la memoria fisica che nasce dal ritrovare un sapore (la madeleine) o da altre sensazioni, come il mettere un piede su una sconnessura del pavimento, ma non mai quella memoria ossessiva, cioè quel terribile rivivere episodi dolorosi o vergognosi della propria vita, invece tanto presente nelle opere successive.
Comunque, questo (“la memoria è… la sostanza stessa su cui si fonda l’arte dell’attore”) è forse l’unico enunciato che sembra valere come norma assoluta, cioè sfuggire a quell’integrale rifiuto di ogni accademismo – sia di tradizione, di avanguardia, di nuovo teatro, poiché le avanguardie possono essere altrettanto accademiche quanto la tradizione – che pretende di dettare le regole assolute o di descrivere l’essenza del teatro. E questo vale per il teatro come per l’arte figurativa (di cui Lombardi è profondo conoscitore, essendosi laureato in storia dell’arte con una tesi si Jean Fouquet ripercorsa in Puro teatro e che diventa spesso un elemento protagonista negli spettacoli suoi e di Federico Tiezzi): non c’è nessun motivo al mondo che impedisca di mettere Caravaggio vicino a Pollock, così come il teatro di Leo de Berardinis non va considerato altro rispetto a quello di Visconti o di Strehler. Perché in questo Lombardi segue le orme di Franco Quadri, uno dei pochi critici che non valuta uno spettacolo sulla base dell’appartenenza a una tipologia, a una scuola o a una corrente, sul fatto cioè che si riferisca al tradizionale teatro di interpretazione di un testo drammatico o invece rifiuti tale riferimento per proporsi unicamente in termini di astrazione visiva come il teatro di avanguardia o il così detto ‘nuovo teatro’. Gli spettacoli teatrali, e perfino le così dette performance, vengono esaminati soltanto per il loro valore e significato individuali. Del resto i giudizi di valore o di merito sono totalmente assenti, sostituiti dall’esame e dall’analisi del significato e della costruzione di un determinato testo spettacolare.
E questo può anche spiegare come il suo percorso di ritorno a una dimensione ‘tradizionale’ – ovvero a un teatro che muove dal testo – appaia molto più spontanea e organica che in altri casi (de Berardinis, Servillo). Ritorno, o, sarebbe meglio dire, movimento dialettico: Aufhebung (per usare un termine hegeliano che significa togliere, ma anche sollevare e che descrive l’eterno ritorno della storia non come un cerchio, ma come spirale: Vico). Il fatto è che questo ritorno, questa Aufhebung, al teatro del testo non avviene ricorrendo a un autore classico, ma al testo del poeta di compagnia (come poeti di compagnia erano stati Shakespeare e Eduardo, ma anche Goldoni e Carlo Gozzi,): Federico Tiezzi.
Il percorso appare dunque soft, ma si tratta di una trasformazione radicale: da un teatro inteso “a separare il significato dal significante per concentrarsi su quest’ultimo” alla “ricerca di una sostanza con cui dare significato alla forma”. E’ un’enunciazione profonda e definitiva: non si tratta propriamente di attribuire un significato alla forma, ma di riconoscere che la forma è essa stessa portatrice di significato. E si tratta di un teatro di poesia (la definizione è, mi pare, di Lorenzo Mango), da cui nasce un fitto rapporto amoroso con gli autori-poeti: da Luzi a Pasolini a Testori di cui Lombardi sarà ineguagliabile interprete, il che non significa affatto, come pretendeva Silvio D’Amico, che egli sia semplice esecutore del testo, che invece può, anzi deve essere rivisitato e spesso riformulato, come succede, ad esempio, con Le ceneri di Gramsci, i cui 14 poemetti vengono addirittura ridotti a un astratto pas-de-deux con Virgilio Sieni, dove il testo viene recitato quasi in forma di contrappunto musicale, o, ancora di più, nell’Erodias, di Giovanni Testori, tradotta, si potrebbe dire, in quell’artificiosa lingua lombarda che Testori aveva costruito in altri testi, mentre questo è in perfetto italiano. Con il quasi necessario trasformare Erodiade da disperata mater dolorosa in una figura violentemente grottesca che però non perde il suo livello tragico.
Ma tale ritorno a un teatro che muove da un testo letterario – via via, nel tempo, oltre a Testori e Pasolini, saranno anche le opere decisamente classiche di Shakespeare, di Pirandello e poi addirittura di Aristofane – comporta anche una crisi di sviluppo della stessa compagnia, resa esplicita dal cambio di nome, poiché da Magazzini criminali diventa prima Magazzini e poi Lombardi-Tiezzi, un titolo che richiama quello di tante compagnie all’antica italiana, ripreso ancora di recente da compagnie moderne come la Proclemer-Albertazzi.
Così però arriva anche la fine della giovinezza, con il suo gusto dell’avventura e della dissacrazione, e il ricordo si fa spesso rimpianto, ma un rimpianto soffuso di tenerezza, come rivela la strana espressione francese “apprendre par coeur”, ma anche lo stesso termine di “ricordo”, poiché entrambi rimandano all’idea di ‘cuore’ come sede dei sentimenti.
Con la fine della giovinezza dunque il ricordo si fa rimpianto – degli scomparsi come dei perduti, o di quei dì che non tornano più, a differenza dei “cari luoghi” di cui canta la celebre aria della Sonnambula.
Ma vorrei chiudere questa parte dedicata a Giorni felici ricordando il momento in cui il rimpianto si fa rievocazione di un dolore straziante: la morte della madre. Succede che nella memoria del lettore si creino strane confusioni. Così mi è capitato di confondere questo ricordo doloroso con uno invece dolcissimo, che ricorre diverse pagine prima: quello del primo contatto con il ‘teatro’ attraverso la visione di una lanterna magica regalata a Sandro bambino per farlo dormire. Di solito la rievocazione di questo primo contatto si trova all’inizio dei libri di memorie (così nel Wilhelm Meister, ma così anche nei Mémoires di Mademoiselle Clairon). Qui invece tale rievocazione compare verso la fine del libro e in termini del tutto fantasmatici.
Nella verità del testo il dolore per la madre è connesso (perché così voleva la coincidenza cronologica) con un dolore ‘politico’: la vittoria delle destre alle elezioni del 1994. Ciò che testimonia della profondità esistenziale con cui l’attore partecipa alla vita sociale. Ma la cosa strana, addirittura impensabile nel suo connettere i ricordi del passato con l’attualità del lavoro dell’attore, è che a questo punto l’attore si domanda:
“Ho recitato bene dopo questi due eventi?”.
Il secondo libro di Sandro Lombardi, Le mani sull’amore, viene pubblicato da Feltrinelli nel 2009, quindi solo sei anni dopo Giorni felici, come se la scrittura fosse diventata non certo uno hobby, quanto una seconda e altrettanto importante forma di espressione dell’autore-attore.
Si tratta questa volta di un romanzo, relativamente breve e comunque di sapore autobiografico, visto che è scritto in prima persona, ma non certamente di un Bildungs-roman, caso mai, se posso cimentare il mio povero tedesco in un neologismo, di uno Zerstörungs-roman – di distruzione, di dissoluzione. E’ un romanzo epistolare – del tipo, se si può fare un riferimento irriverente, ma non del tutto infondato, delle Liaisons dangereuses di Chordelos de Laclos, o, certamente in modo più diretto, delle Ultime lettere di Jacopo Ortis. Si apre infatti con la formula “Caro Lucio” e si chiude con un “ciao”.
Ma, spesso, il destinatario, che non si fa mai ‘corrispondente’, viene trattato come un personaggio: in terza persona. Mentre, con una di quelle frequenti velature dietro cui l’autore nasconde la propria identità, il protagonista-mittente è bensì un artista, ma non attore: pittore e, come tale, può facilmente farsi maestro del giovane amato. Peraltro all’attore rimanda un motivo, qui non dominante come in Giorni felici, ma pur sempre ricorrente: la memoria. Non per nulla l’unico romanzo citato è, ancora, il proustiano Tempo perduto.
Ma il valore della memoria è rovesciato.
Negli Anni felici, come abbiamo visto, la memoria era la dote creativa prima e indispensabile dell’artista-attore. Qui, al contrario, è lo strumento dell’autodistruzione perché quando la memoria “comincia a rilasciare le sue immagini” comincia anche il riconoscersi nell’angoscia, diventando ossessione. Ma anche perché l’artista è capace “di ricorrere ai ricordi più dolorosi, pur di spremere il tono giusto di un’opera”, che è peraltro una bugia che il protagonista rifila, quasi a giustificazione, a un personaggio secondario. Come se la memoria fosse, invece, lo strumento che obbliga a riconoscere l’impietosa crudeltà della vita che non fa sconti e non fa regali: “perché non rendi poi quel che prometti allor?”. Il romanzo infatti è intriso bensì di tragicità, ma più di un sentimento tragico che si fa di frequente spleen leopardiano. Anche e soprattutto nell’amore, dove il ricordo del momento magico, non ancora turbato dal sesso, serve solo a scoprire che “l’amore è una malattia senza speranza. Ti divora, ti spezza come il dolore” – parole pronunciate da una figura femminile anche lei tradita e abbandonata, ma che, al contrario del protagonista, rimane forte e decisa ad affrontare la vita. E’ cioè, l’amore, “l’aspetto doloroso della felicità”, strepitoso ossimoro in cui si concentra la realtà tragica dell’esistenza.
E’ come se il romanzo costituisse il controcanto dell’autobiografia, ma questo perché non bisogna pensare che “la verità stia solo in ciò che accade” e perché è “l’immaginazione [ciò che] attinge al fondo stesso della vita”.
Un paradosso che lascia spazio a diverse interpretazioni perché, mentre i giorni reali dell’autobiografia erano “felici”, questi, fantastici, del romanzo portano invece all’estremo della disperazione, anche se il finale lascia aperto uno spiraglio alla riconquista della vita che, comunque, non potrà più essere fatta soltanto di “giorni felici”.
Ancora sei anni (quasi una scadenza) e Lombardi pubblica il suo terzo libro: Queste assolate tenebre, Lindau 2015, il bellissimo ossimoro del titolo essendo mutuato da una poesia di colui, Mario Luzi, che qui funge davvero da corrispondente o, meglio, da dialogante e come amato maestro, quasi il rovescio del deuteragonista del romanzo che era invece (o avrebbe potuto essere) un alunno, per quanto malquerido.
E’ un libro di cui è molto difficile parlare, per la varietà e la novità dei temi trattati, come per l’intensa semplicità del dettato, a meno che non si voglia fare come il Pierre Menard di Borges che, per rivisitare il Don Quijote di Cervantes, finisce per riscriverlo parola per parola. Vi si adatta in qualche modo la definizione data al pasoliniano Teorema, che “non era romanzo, non era poesia… sceneggiatura…era un po’ di tutto questo: era, sostanzialmente, letteratura”. Come se quello di ‘letteratura’ fosse un concetto in sé evidente.
Come il romanzo, anche quest’opera è strutturata in forma epistolare, che scivola però nella conversazione, anche se si tratta di una conversazione più spesso spirituale che concreta. Vi prosegue il controcanto dei Giorni felici, che proprio qui viene definito “romanzo di formazione”. Ma mentre La mani sull’amore era storia di dissoluzione, qui all’autodistruzione segue la rinascita. Il filo conduttore vi è comunque cronologico, anzi più esplicitamente cronologico che nel romanzo dove i tempi e i momenti della storia si accavallavano e spesso si confondevano. In ogni caso però c’è una storia: la storia di un’amicizia quasi opposta alla storia di un amore. Di un’amicizia nata come magicamente molti anni prima della conoscenza diretta, attraverso la poesia di Luzi, percepita come una poesia essenziale, spogliata della retorica, e dove le figure preminenti sono l’enjambement, che appunto avvicina i versi alla prosa, e l’ipallage che provoca rovesciati e inattesi accostamenti. Una poesia che gli permette di capire il valore centrale: l’amore per le cose del mondo.
Quando poi il rapporto diventa diretto, la poesia e la personalità amica di Luzi permetterà addirittura a Lombardi di scoprire la pregnanza della parola, detta e scritta, cioè un punto essenziale del mestiere dell’attore. Infatti, paradossalmente, le riflessioni sull’essere attore e sull’arte dell’attore sono qui più organiche e sviluppate di quanto non fossero nell’autobiografia.
Nella parte finale irrompe inatteso e violento il racconto della crisi, che costituisce quasi la verità di ciò che nel romanzo era stato fantasia. Con l’altrettanto inattesa individuazione di una causa su tutte: finita la stesura del libro dal titolo gioioso (I giorni felici) fa irruzione nell’anima dello scrittore il vuoto della vita (di cui parla con straordinaria efficacia un bel film argentino, credo poco noto, Il segreto dei suoi occhi di Juan José Campanella). Ma assieme ad esso una domanda drammatica: questa crisi, questo vuoto sono malattia o colpa? E cosa significa il fatto che se ne esce non attraverso a una nuova opera – un libro o uno spettacolo – e nemmeno grazie al pur decisivo aiuto di Federico, l’amico e il maestro di sempre, ma soltanto grazie ai piccoli gesti della vita quotidiana, attraverso i quali soltanto si può recuperare l’amore per le cose, che già Luzi aveva cercato di insegnagli.
In verità questo libro meriterebbe, anzi esigerebbe una critica stilistica, non solo, e non tanto perché il suo fascino consiste forse in primo luogo, anche se non soltanto nella sua intensa semplicità, ma anche perché qui si realizza pienamente quella “ricerca di una sostanza con cui dare significato alla forma”.
Dalla sua produzione letteraria la personalità di Sandro Lombardi emerge in modo forse addirittura più evidente di quanto non avvenga dalle interpretazioni teatrali, forse perché la scrittura tende a chiarire se non proprio a rendere espliciti i propri contenuti. E non si tratta di una personalità solare, come quella dell’ideale artista rinascimentale, ma piuttosto della personalità turbata e introversa di un artista sempre in lotta con i suoi fantasmi, che devono farsi arte, espressione, ma che spesso si ribellano. Se a qualcuno la si può confrontare, questo qualcuno potrebbe essere il Pontormo (interpretato su un testo di Luzi), il conturbante pittore ‘manierista’ che viveva in una soffitta in una strada che non si chiama “via”, ma “borgo” e che non corrisponde affatto alla razionale prospettiva che qualifica l’urbanistica fiorentina, ma è piuttosto simile a una veneziana calle lunga, e si trova proprio vicino a dove, da anni, vive il nostro “grande attore”: borgo Pinti.
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Grazie, Cesare, non conoscevo il Teatro Povero di Montichiello, l'articolo mi ha regalato molte cose
Grazie Cesare per il bell'aricolo su Andrea Cresti e sul Teatro Povero di Monticchiello, che ho avuto la fortuna di vedere diversi anni fa
Grazie Cesare x questo articolo che celebra una infinita ricchezza umana artistica volata via in questo tempo buio in cui Thanatos si aggira indisturbato per le strade.....
Bellissimo articolo scritto con il cuore...grazie per averlo condiviso.