POST POST POST
POST POST POST
della democrazia oggi
Siamo nel tempo della post-verità, che è stata elevata a modello politico, dalla campagna elettorale del nuovo presidente degli Stati Uniti, ma che certamente esisteva prima di lui, come dimostra questo, che una larga parte del popolo americano non abbia creduto alle inconfutabili statistiche che dimostravano quanto la presidenza Obama avesse migliorato la situazione economica, accogliendo invece le enormi accuse (tradimento, assassinio e quant’altro) lanciate contro Hillary Clinton.
Cosa vuol dire “post-verità”? Vuol dire che gli enunciati di tipo denotativo, quelli cioè che si riferiscono a fatti empiricamente o scientificamente verificabili non devono più essere sottoposti all’alternativa “vero\falso”, ma solo a quella “buono\cattivo” – a condizione che servano a qualcosa. E su questa alternativa si veda il celebre libro del fondatore del concetto di “post”, Jean-François Lyotard: La condizione post-moderna (1979).
Il quale Lyotard ha, identificato l’epoca post-moderna con quella post-industriale, e ciò implica che essa sarebbe stata determinata dall’avvento di una nuova totalizzante tecnologia: l’informatica. Lyotard identifica la principale caratteristica dell’età post-moderna nella fine delle “grandi narrazioni”, ridotte sostanzialmente a due: la vita dello spirito, nelle sue versioni cristiana e hegeliana, di fronte alla emancipazione dell’umanità, marxista e socialista. Credo possibile avvicinare il concetto di “grande narrazione” a quello di “ideologia”, ovvero di quell’insieme coerente di principi e di valori atto a fornire, un’interpretazione della realtà e una linea di condotta morale e sociale.
Fra i molti “post-“ di cui si è chiacchierato in questi anni, il più importante mi pare essere quello di “post-democrazia”, perché, almeno fin dai tempi in cui il grande Hans Kelsen pubblicava il suo Dell’essenza e del valore della democrazia, 1929, il concetto di democrazia ha costituito il centro del dibattito politico. Nella sconfinata bibliografia che ne è seguita, quasi tutti gli autori ricordano che l’idea e la pratica della democrazia va riportata all’Atene del V secolo a.C., e soprattutto al grande discorso di Pericle raccontato da Tucidide: “Abbiamo una costituzione (politeia) che non copia le leggi dei vicini, in quanto noi siamo più d’esempio ad altri che imitatori. E poiché è retta non dai pochi, ma dalla maggioranza, essa è chiamata democrazia”. Mentre quasi nessuno ricorda quell’unico verso con cui Eschilo, nei Persiani, descrive la condizione degli ateniesi che «non sono detti servi né sudditi di un qualche uomo»: lette insieme, le due citazioni definiscono la democrazia come governo della maggioranza in una società di liberi.
Ma la moderna discussione sull’argomento comincia solo verso la fine del XVIII secolo, con Rousseau, primo e finora unico grande fautore della democrazia diretta. Perché è nel corso dell’Ottocento che la democrazia comincia a proporsi e ad affermarsi come il più radicale capovolgimento delle precedenti forme di governo, per realizzarsi nella sua pienezza soltanto nei primi decenni del Novecento con l’introduzione del suffragio universale maschile – esteso alle donne in Inghilterra tra il 1918 e il 1928, in Italia e in Francia nel 1946 e in Svizzera addirittura nel 1971.
Questo tema del suffragio femminile è importante per introdurre la prima domanda relativa alla definizione di democrazia come governo del popolo, che suona: «chi è il popolo?», cioè «chi e quali sono le persone che godono a pieno titolo dei diritti politici?». Per “cittadini” si potrebbero indicare coloro che risiedono stabilmente entro i confini di uno stato. In realtà, gli stranieri stabilmente residenti non diventano automaticamente “cittadini”: hanno soltanto il diritto di avanzare richiesta di cittadinanza, che può essere respinta se il richiedente non soddisfa certe altre condizioni, come la buona conoscenza della lingua e dei principi costituzionali. Su questa base si potrebbe negare la cittadinanza anche agli analfabeti. E tralasciamo la questione dello jus soli. Ma varrà la pena di notare che la nostra Costituzione, se afferma che «la sovranità appartiene al popolo» (art.1) e che «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale» (art.3), non si sofferma a definire lo stato di “cittadino”, riferendosi agli stranieri solo per affermare il diritto di asilo dello «straniero al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana»: questo mirabile art. 10 sembra dunque implicare l’estensione della cittadinanza ai rifugiati politici.
Ma torniamo alla post-democrazia. Colin Crouch, che titola il suo contributo del 2000 usando appunto questo termine composto Postdemocrazia, ha utilmente cercato di spiegare, prima di tutto, il concetto di “post”. Le epoche storiche, ma più in particolare ci si potrebbe riferire alle istituzioni, alle strutture sociali o economiche, si svilupperebbero in tre fasi: quella aurorale, che Crouch definisce pre-X, in cui compaiono alcuni dei tratti che serviranno a definirla; quella della maturità, in cui gli elementi che la qualificano diventano prevalenti; e quella della decadenza, in cui tali elementi, pur senza scomparire, vengono messi in discussione, a volte facendo riemergere quegli altri che avevano caratterizzato l’epoca o le istituzioni precedenti.
Così, per esemplificare, nell’epoca pre-industriale, avevano cominciato a comparire opifici che, avvalendosi di lavoro stipendiato, avevano in qualche misura affiancato o sostituito le botteghe artigianali. Così, nel 1215, i baroni inglesi imposero delle limitazioni al potere assoluto della monarchia, con la Magna Charta Libertatum, ottenendo che l’imposizione di nuove tasse fosse sottoposta all’approvazione dei Pari – dove è interessante notare che il principio di libertà anticipa di secoli quello di democrazia. Ragion per cui si può affermare che la democrazia raggiunge la sua maturità soltanto con l’affermarsi generalizzato del suffragio universale che, nella sua forma completa (maschile e femminile), si realizza soltanto cinquant’anni prima dell’età post-industriale (crisi della fabbrica fordista), e dunque post-moderna.
Hans Kelsen definisce la democrazia come sistema di governo che serve a realizzare l’ideale della libertà, il quale può avere uno straordinario contenuto affettivo: «libertà va cercando, ch'è sì cara, \ come sa chi per lei vita rifiuta». (Dante)
Ma proprio in quanto ideale, il principio di libertà non può essere considerato un enunciato sottoposto cioè all’alternativa “vero\falso”, ma, al contrario, un enunciato che implica un giudizio di “buono\cattivo”, in quanto tale dipendente dalle scelte etiche e morali del singolo. A sua volta, la democrazia, in quanto strumento, può essere definita come una forma del contenuto “libertà”, ma non l’unica possibile e non necessariamente la migliore: sarà quindi valutata con un giudizio non di verità o di bontà, ma di efficenza. Quindi entrambi i principi, libertà e democrazia, stretti nel nesso contenuto e forma, hanno carattere relativo. Ciò che non significa, come pensano i cultori dogmatici della verità assoluta, che non abbiano valore morale. Al contrario: «Io posso lottare e morire senza riserve per la libertà che la democrazia è capace di attuare, anche se posso ammettere che, dal punto di vista della scienza razionale, il mio punto di vista è soltanto relativo». (Kelsen)
Tuttavia, se si riconosce che la democrazia è solo una delle possibili forme del contenuto “libertà”, bisogna anche riconoscere che tale forma è per definizione duttile e ammette molte varianti. Da quando l’età della democrazia è entrata nella fase della sua maturità, ci siamo abituati a identificare la democrazia con la democrazia rappresentativa (o parlamentare), dimenticando quasi completamente l’esistenza, almeno teorica, della democrazia diretta. Un residuo di democrazia diretta è individuabile nell’istituto referendario. I referendum possono essere di iniziativa governativa, come succede quando si tratta di questioni istituzionali, o di iniziativa popolare, e allora possono affrontare i temi più diversi, da quelli di grande impatto sociale e ideologico (divorzio e aborto) a quelli di carattere più specifico, sfiorando in certi casi il livello istituzionale. Anche da noi c’è stata una precoce stagione referendaria, promossa dai radicali, in qualche modo nostalgici della democrazia diretta. Appena entrata nella fase della sua maturità, la democrazia parlamentare cominciò a manifestare difficoltà di funzionamento. Nella terza repubblica francese come in Italia la molteplicità dei partiti rendeva difficile la formazione di governi che potessero godere di un minimo di stabilità, cui si cercò di porre rimedio attraverso revisioni della legge elettorale. Gherardo Colombo ha rilevato come essa democrazia sia «complicata e complessa…faticosa, impegnativa, difficile», soprattutto sotto il profilo, della funzionalità.
Più di recente sono state mosse alla democrazia parlamentare obiezioni di ordine più generale: da una parte non è in grado di garantire quel minimo di eguaglianza economica (Piketty), senza la quale, come voleva Marx, essa diventa puramente formale; dall’altra, nei fatti, si riduce a oligarchia. E’ stato Sabino Cassese a lanciare il dibattito, affermando che «la nostra democrazia è indiretta, delegata, di fatto è una oligarchia», ripreso da Scalfari, secondo il quale «l'oligarchia è la sola forma di democrazia, altre non ce ne sono salvo la cosiddetta democrazia diretta… Pessimo sistema». Cui Zagrebelsky ha ribattuto che «le oligarchie fondano il loro potere non su una legittimazione esterna» quindi non sulla rappresentanza. Forse di oligarchia bisogna sicuramente parlare riferendosi al potere esecutivo, al governo, che se deriva dall’organo di rappresentanza, il Parlamento, ne viene solo molto parzialmente controllato.
Peraltro, il dibattito in corso non riguarda tanto il concetto quanto il suo apparentemente inarrestabile degradarsi, dovuto in gran parte al venir meno del gusto per la partecipazione alla vita politica. Molti osservatori hanno connesso tale disaffezione alla crisi dei partiti politici, cioè di quelle strutture associative che, come detto, fornivano una cornice ideologica coerente alle prese di posizione sui singoli problemi. Così, Paolo Mancini non ha esitato a titolare il suo recentissimo saggio Il post partito. La fine delle grandi narrazioni. “Post partiti” sarebbero i movimenti che, per definizione, si formano e si disfano su singoli temi, senza coerenza ideale, talché un difensore di una più equa distribuzione del reddito potrà essere allo stesso tempo fiero oppositore dell’accoglienza dei migranti.
Il “post partito” per eccellenza sarebbe quello fondato da Grillo e Casaleggio. Molti hanno pensato che il MoVimento5stelle si sia, di fatto, trasformato in partito nel momento in cui ha cominciato a darsi organismi burocratici e gerarchici. Ma non è questo il punto. Il punto è che il Movimento è attualmente il solo a proporsi con una vocazione ideologica, seppur limitata all’idea di democrazia diretta fondata sulle possibilità della rete, ancora bambina, ammette Grillo. Ma proprio perché la rete è ancora bambina, la piena realizzazione del mondo promesso dalla nuova democrazia diretta, che ridurrebbe la vita politica a una sorta di referendum continuo, è proiettata nel futuro, come è proprio di tutte le ideologie (o utopie).
Non molti ricordano che la vera “grande narrazione” di Casaleggio non si trova nei suoi scritti, ma è affidata a un video intitolato Gaia un nuovo ordine mondiale è nato oggi. è un’opera di fantascienza dalla quale si evince che che, se il nuovo ordine è nato oggi, esso troverà la sua piena realizzazione soltanto nel 2057: un tempo non troppo lontano ma che verrà soltanto dopo una disastrosa guerra mondiale che avrà ridotto il numero degli abitanti della terra da sette miliardi a uno solo. Come se l’autore si fosse reso conto che, dopo la globalizzazione, un vero governo del mondo – che oggi è piuttosto una governance affidata a una miriade di istituzioni e di trattati multi o bilaterali – non sarà possibile, neppure attraverso una rete matura, se non a condizione di un drastico ridimensionamento della popolazione.
Si può immaginare che la democrazia diretta in versione informatica potrebbe comportare la fine dei leader: niente è più opinabile di una simile ipotesi – bisognerebbe sempre ricordare che Leader significa “guida”, che in italiano suona “duce” e in tedesco “Führer” e che la leadership si esercita in primo luogo non tanto o non solo nel prendere le decisioni, quanto nel dettare l’agenda. Del resto, il leader della democrazia diretta, se non è propriamente colui che prende le decisioni, è colui che le indica, soprattutto grazie alla sua capacità di parlare alla pancia degli elettori, i quali, votando con un clic, non hanno voglia di riflettere. Infatti Beppe Grillo, nell’ultima campagna referendaria, invitò a votare “con la pancia”, ritenuta più affidabile della mente per connettere il proprio personale interesse a quello generale.
Ciò non toglie che la questione debba essere esaminata e discussa seriamente e approfonditamente. In un mondo in cui a tutti è concesso di esprimere la propria opinione su qualsiasi argomento, cedendo il più delle volte al desiderio di esibirsi, ma anche nell’illusione che tale opinione raggiungerà il “grande pubblico”, senza rendersi conto che ciò avviene soltanto attraverso innumerevoli filtri che il singolo non sarà mai in grado di gestire, è chiaro che l’uso della rete trasformerà se non la vita politica, almeno il significato e l’incidenza dell’opinione pubblica. Stefano Rodotà si è di recente fatto promotore di tale dibattito, senza nascondere la sua propensione ad accompagnare i cambiamenti in corso.
Ma forse, concludendo, sarà opportuno richiamare le profetiche parole con cui Norberto Bobbio metteva in guardia (nel 1984!) sui possibili esiti di tali cambiamenti: «L'ipotesi che la futura computer-crazia consenta l'esercizio della democrazia diretta, cioè dia ad ogni cittadino la possibilità di trasmettere il proprio voto ad un cervello elettronico, è puerile. ... Nulla rischia di uccidere la democrazia più che l'eccesso di democrazia. ... L'ideale del potente è sempre stato quello di vedere ogni gesto e di ascoltare ogni parola dei suoi soggetti… Nessun deposta è mai riuscito ad avere sui suoi sudditi tutte quelle informazioni che i governi possono attingere dall'uso dei computer». Non assisteremmo dunque a un incremento del potere del popolo (demo-crazia), ma al formarsi di una nuova aristocrazia, del potere cioè di coloro che gestiscono le reti e i social-network, i quali affiancheranno e condizioneranno pesantemente governi e istituzioni politiche. Non per nulla il fondatore di Facebook Mark Zuckenberg, è diventato in pochi anni uno degli uomini più ricchi e quindi più potenti del mondo. In effetti,le attuali democrazie sembrano assumere in modo sempre più evidente l’aspetto di plutocrazie. Conseguenza in qualche misura fatale del principio di libertà economica. Che non sembra trovare limiti precisi nella violazione di altri diritti.
Ultimi commenti
Grazie, Cesare, non conoscevo il Teatro Povero di Montichiello, l'articolo mi ha regalato molte cose
Grazie Cesare per il bell'aricolo su Andrea Cresti e sul Teatro Povero di Monticchiello, che ho avuto la fortuna di vedere diversi anni fa
Grazie Cesare x questo articolo che celebra una infinita ricchezza umana artistica volata via in questo tempo buio in cui Thanatos si aggira indisturbato per le strade.....
Bellissimo articolo scritto con il cuore...grazie per averlo condiviso.