NAZIONALISMO E SOVRANISMO
In uno dei suoi libri più pregnanti anche dal punto di vista politico, Nazioni e nazionalismo dal 1780, Eric Hobsbawm, il grande storico inglese universalmente noto soprattutto per Il secolo breve (Age of Extremes. The short twentieth century 1914-1991), ricorda che non solo il concetto, ma il termine stesso di ‘nazione’ sono relativamente recenti, risalendo a non oltre i primi decenni del XVIII secolo, per diventare cruciali soltanto nell’Ottocento, sviluppandosi da movimenti nati piuttosto per abbattere i regimi assolutistici che non per rivendicare l’indipendenza nazionale, sulla linea tracciata dalla rivoluzione francese. E, se è vero che la Marsigliese esorta i “figli della patria” (enfants de la patrie) a prendere le armi contro gli stranieri, lo fa perché costoro sono un’orda di schiavi e il sacro amore della patria viene evocato in primo luogo per combattere la tirannia in nome dell’amata libertà (liberté liberté chérie). Certo, il termine ‘patriota’ non è estraneo al vocabolario dei rivoluzionari francesi (già nel 1789 veniva pubblicato un giornale intitolato “Patriote français”), ma il francese è tale in quanto cittadino (citoyen), vale a dire in quanto membro della République, non in quanto nativo: lo stato viene prima della nazione.
Ma Hobsbawm fa notare anche che, mentre chiunque è in grado di dare una definizione, più o meno sommaria o esauriente, di ‘stato’, tutti incontrerebbero serie difficoltà a dire cosa intendono parlando di ‘nazione’, termine che non può essere ridotto alla sua connotazione geografica: il luogo dove si è nati, anche se questo è il suo significato etimologico, non foss’altro perché, in questo caso, la ‘nazione’ andrebbe piuttosto identificata con la ‘patria’, la terra dei padri, come suona esattamente il tedesco Vaterland, che però, significativamente, si alterna con Heimat, da Heim, che vuol dire ‘casa’, ma non nel senso di ‘edificio’ quanto piuttosto in quello di ‘famiglia’. Allora diventa chiaro che ‘nazione’ va riferito prevalentemente, se non addirittura esclusivamente, a un complesso insieme di uomini, poiché una persona rimane italiana anche se vive in un altro paese, o, addirittura, se vi è nata.
Ma, di fatto, come è possibile esprimere tale concetto con un termine solo? Si tratta cioè di una società o di una comunità, dove il concetto di società implica un’adesione o addirittura un’iniziativa volontaria e quindi, in linea di principio individuale: sono io che decido di aderire a una società o di promuoverla, e lo faccio volontariamente, assumendomi certi impegni o doveri e ricevendone certi vantaggi, o diritti. A una società pensava implicitamente Rousseau parlando di contratto sociale. D’altronde una società non è necessariamente for ever: come ne sono entrato, così ne posso uscire. Mentre il concetto di comunità implica invece qualcosa di naturale o almeno di spontaneo, definito dal fatto che i suoi membri sentono o credono di avere qualcosa in comune. E, come da una società ci si può ritirare quando il rapporto tra vantaggi e svantaggi, ovvero fra diritti e doveri, pende a favore dei secondi, così da una comunità si può uscire allorquando viene meno la sensazione o la certezza in quello che si pensava di avere in comune con gli altri membri, i cui valori sembrano essere cambiati, ossia quando ci si rende conto che sono cambiati i propri.
Naturalmente, ma per paradosso, la distinzione non è così netta: generalmente, si entra in una società con un atto volontaristico, ma può succedere anche di trovarcisi implicati per destino o per nascita: così, per dire, i figli di Agnelli, come di qualsiasi altra dinastia imprenditoriale, sono naturaliter soci della Fiat, da cui possono uscire quando si rendono conto di poter realizzare meglio le loro ambizioni economiche o sociali fondando una propria azienda o associandosi a un’altra già esistente. Similmente si può entrare in una comunità esistente con un atto di volontà individuale, come sarebbe entrare in un convento di frati benedettini, ma ci si può anche nascere, come succede, per restare a esempi religiosi, ai figli dei fedeli di una chiesa metodista o, perfino, di una parrocchia cattolica. Per staccarsene, se del caso, nel rendersi conto che, di fatto, i membri di tali comunità non rispettano gli articoli della fede che professano, oppure che la propria fede non è più la stessa.
Ora, uno stato assomiglia certamente piuttosto a una società che non a una comunità. E può trattarsi di una società con un unico azionista di maggioranza, tutti gli altri essendo piuttosto dipendenti che soci: così nei regimi assolutisti, il cui principio è sintetizzato molto bene dalle famose parole di Luigi XIV: L’état c’est moi. All’estremo opposto gli stati democratici, in cui tutti i cittadini dovrebbero avere gli stessi doveri e gli stessi diritti, questi ultimi garantiti in modo relativamente accettabile sul piano giuridico, ma non per nulla, e in linea di principio, sul piano economico. La Costituzione degli Stati Uniti proclama che il primo diritto dei suoi cittadini è “la ricerca della felicità”. Malignando, si potrebbe tradurre “la ricerca della ricchezza”, ma ovviamente non può, né vuole, garantire la felicità, ossia la ricchezza.
In linea di massima, gli stati non avrebbero bisogno di proclamare grandi principi che trascendano quelli su cui essi si fondano, limitandosi a proteggere gli interessi dei loro sudditi e, più ancora, a non violarli. Parlo di interessi, non di diritti. Perché ci sono un paio di episodi illuminanti su questo punto. Qualche anno fa Gérard Depardieu, che non era un poveraccio, annunciò di aver deciso di rinunciare alla cittadinanza francese (la Francia è uno dei pochi paesi che non ammette la doppia cittadinanza) per diventare cittadino russo. Questo perché riteneva che i suoi interessi economici fossero danneggiati dall’eccessiva tassazione – esattamente come l’azionista di una qualsiasi azienda avrebbe potuto vendere tutte le sue azioni perché non rendevano abbastanza o gli causavano addirittura delle perdite. Molto più di recente, il ministro Salvini ha dichiarato di sentirsi molto più “a casa” in Russia che non in Italia, usando il termine “casa” per dire “patria”, forse avendo in mente il tedesco Heimat. Comunque Salvini non pensava certo ai suoi interessi economici, pensava invece al modo di vivere e ai valori che, così doveva sembrargli, facevano della Russia una vera comunità, piuttosto che una fredda società.
Resta da vedere se, a sua volta, la nazione possa essere considerata come una comunità. Hobsbawm smonta a uno a uno i fattori ritenuti costitutivi di una nazione, pur usando solo poche volte il termine ‘comunità’. Il caso dell’Italia è spesso emblematico, a partire dalla questione della lingua, come è ben noto dibattuta fin dai tempi di Dante, che proponeva un “volgare illustre”, cioè una lingua sostanzialmente artificiale, mentre Manzoni riteneva che l’italiano andasse identificato con il toscano; di recente Giulio Lepschy ha fatto notare che l’italiano attualmente parlato e sostanzialmente imposto dalla televisione si avvicina piuttosto alle parlate del nord Italia, almeno dal punto di vista fonetico. Tuttavia, ancora oggi l’italiano sembra essere ancora una sorta di koinè, parallela ai dialetti che ancora per molti sono la vera Muttersprache e che tendono lentamente a scomparire. Rimane che per secoli la grande maggioranza degli italiani, compresi quelli delle classi elevate, parlavano almeno una ventina di dialetti fra loro anche molto diversi, alcuni, come il veneto e il toscano, derivando direttamente dal latino, mentre altri avevano radici prevalentemente galliche, talché per un veneto risultava impossibile intendersi con un ligure, se non ricorrendo alla koinè nota soltanto a una piccola minoranza. Peraltro la situazione non si presenta diversa in molti altri paesi. Così in Germania si parlano molti dialetti, fra loro tanto diversi che per un bavarese sarebbe molto difficile farsi capire da un prussiano, se non ricorrendo allo Hochdeutsch, anch’esso una sorta di koinè, ma da sempre – o almeno da tempi di Lutero – più largamente nota. Ma anche paesi ritenuti linguisticamente più compatti, come la Francia e la Spagna, ospitano popolazioni parlanti lingue diverse: in Francia idiomi derivati dalla lingua d’oc sono tuttora parlati in Provenza e in Normandia, mentre in Spagna, oltre al clamoroso caso catalano, sussistono lingue profondamente radicate, come il basco, che non è neppure una lingua indoeuropea, ma anche varianti del castigliano, come il valenziano o il galiziano. Assolutamente specifiche sono le situazioni della Svizzera, con le sue quattro lingue ufficiali (che peraltro si affiancano, come altrettante koinè a quelle effettivamente parlate) e della Gran Bretagna, dove il gallese viene gelosamente conservato, ma soltanto come reperto archeologico, mentre scozzese e irlandese sono ancora molto diffusi. Comunque l’inglese, cioè la lingua più parlata nel mondo occidentale, è usato dalla stragrande maggioranza, anche se non sempre in modo esclusivo.
Ma Gran Bretagna e Svizzera sono stati federali, che si riconoscono composti da diverse nazioni che godono di larghissima autonomia, cosa sottolineata dalle loro stesse denominazioni ufficiali: United Kingdom (UK) e Confederatio Helvetica (CH). Ciò che induce ad accennare alla dialettica fra storia politica e storia della lingua. Come ben noto, al Congresso di Vienna l’Italia era considerata come una mera espressione geografica. Con questa affermazione Metternich riconosceva, o sosteneva, che i così detti confini naturali non possono, di per sé, giustificare l’esistenza di uno stato o di una nazione, anche se (o, forse, proprio perché) l’Italia era il paese dell’Europa continentale la cui configurazione e i cui confini erano più geograficamente evidenti, altrettanto evidente essendo la sua frammentazione politica, linguistica e culturale. Ma allora c’è da chiedersi come potesse essere nata, e che consistenza avesse, in tempi antichi, l’idea, o piuttosto la sensazione?, che l’Italia fosse qualcosa di più che non una figura geografica, idea che incontriamo già nel virgiliano Salve magna parens frugum \ et virum e nel petrarchesco Italia mia ben che il parlar sia indarno. Idea che, come visto, troverà il suo pieno sviluppo nei primi decenni dell’Ottocento, cominciando a prendere corpo come espansionismo del regno di Sardegna, ma per concludersi, nell’impresa garibaldina, con un abbastanza vasto consenso popolare. Rimane che, fatta l’Italia, bisognava fare gli italiani – come ebbe a dire Massimo D’Azeglio. Ancora una volta lo stato precede la nazione, o, eventualmente, ingloba le nazioni.
Evidentemente, per D’Azeglio, “fare gli italiani” non significava tanto che i napoletani o i siciliani avrebbero dovuto rinunciare alla loro lealtà nei confronti degli antichi governi, ciò che veniva loro immediatamente imposto, quanto rinunciare a tutto ciò che si suppone costituire il concetto stesso di nazione, vale a dire credenze, tradizioni. storia, cultura, modi di vita e, al limite, anche religione – in Italia la questione delle religioni non ebbe molto peso, la stragrande maggioranza della popolazione essendo rimasta cattolica, mentre era stata determinante in Germania, dove fu in qualche modo risolta sulla base del principio “cuius regio eius religio”. Non so se D’Azeglio avesse pensato anche a una unificazione linguistica, parzialmente raggiunta, come già visto, solo in tempi recentissimi. Sta di fatto che essa fu in cima ai pensieri dei regimi autoritariamente nazionalistici: Mussolini pretese di vietare l’uso dei dialetti, almeno in pubblico, mentre ancora più dura fu la repressione del franchismo contro il catalano. E il principio non era senza fondamento, se è vero che alcuni movimenti secessionisti rivendicavano l’indipendenza delle proprie regioni proprio sulla base della loro identità linguistica, anche se con risultati abbastanza ridevoli: a Venezia la Liga Veneta riuscì a imporre che le indicazioni toponomastiche fossero scritte in veneziano (così piazza diventò piassa e Calle Cale!).
Dunque, il nazionalismo identifica la nazione con lo stato e ne rivendica l’identità (parola ‘avvelenata’, come la definisce Francesco Remotti), ma spesso anche la superiorità culturale quando non razziale, ciò che ne provoca, o almeno ne giustifica l’aggressività. Ed è storia antica: il colonialismo britannico che ha portato a costruire il più grande quanto effimero impero della storia, pretendeva di giustificarsi sulla base dello white man’s burden, il ‘fardello’ dell’uomo bianco predicato da Kipling, cioè della dolorosa ma necessaria missione civilizzatrice. Un’aggressività che, del resto, può derivare in maniera più o meno diretta dallo stesso processo di unificazione, quando esso è avvenuto con una conquista militare. Raggiunte le dimensioni di un ‘grande’ paese, bisogna tradurre tale grandezza territoriale in grandezza politica e, conseguentemente, in potenza. In fondo, e abbastanza paradossalmente, l’espansionismo e le conquiste coloniali degli stati nazionali non differiscono, in linea dei principio, dall’espansionismo degli antichi stati patrimoniali, come è abbastanza naturale dal punto di vista economico: qualsiasi patrimonio, se non costantemente incrementato, finisce per languire. Ma ai nostri giorni, in cui il territorio non è più sinonimo di potenza e di ricchezza, che si sono trasferite nell’industria e, soprattutto, nella finanza, le contese territoriali sono diventate del tutto marginali, al punto da apparire spesso assurde e comunque rétro, quasi beghe fra comari. Ed è forse per questo, o almeno anche per questo che il nazionalismo ha ceduto il passo al sovranismo, ma quasi come lasciandolo in eredità a un figlio, seppure bastardo.
Di massima, per le ragioni sopra accennate, il sovranismo non presenta tracce di quella aggressività espansionistica che aveva caratterizzato il nazionalismo: non è più paragonabile a un’aquila o a un leone che circuit quaerens quem devoret, quanto piuttosto a un istrice, che rizza i suoi aculei contro chiunque i provi a toccarlo, anche se solo per una carezza. Ne consegue la polemica, anche meritoria, contro la globalizzazione e lo strapotere della finanza e delle multinazionali, ma ne consegue altresì il rifiuto (peraltro condiviso con il nazionalismo) di qualsiasi autorità sovranazionale e in primo luogo delle Nazioni Unite, spesso sbeffeggiate per la loro palpabile impotenza, ma poi anche, e soprattutto, dell’Unione Europea, in quanto pretende di condizionare, se non proprio di determinare, le scelte economiche di uno stato sovrano: le scelte economiche, non quelle politiche, poiché, di fatto, l’Unione Europea si è fermata ai primi passi sulla strada tracciata dai saggi di Ventotene e non si è mai trasformata da comunità economica in comunità politica. Che anzi, gli attuali e diffusi sovranismi costituiscono il primo e principale ostacolo al possibile progredire dell’Europa verso una comunità politica, trovando in ciò formidabili alleati nelle due grandi superpotenze che continuano a fronteggiarsi come se la guerra fredda non fosse mai finita e non fossero caduti gli steccati (o i pretesti?) ideologici. Le quali però hanno in comune l’interesse di non permettere la creazione di una nuova forza mondiale che, se del caso, potrebbe allearsi con la Cina. Poiché, come accennato, i sovranismi europei non hanno alcun interesse a giocare un ruolo nello scacchiere internazionale, al contrario di quanto intendono i sovranismi delle due grandi potenze, come in qualche modo testimoniato dalla sottile differenza semantica fra i proclami del primo grande sovranista e quelli dei sovranisti nostrali, quello di Donald Trump suona infatti “America first”, mentre Salvini dice “prima gli italiani”: il primo si riferisce allo stato, il secondo alla nazione.
Ma in questo caso la risposta al quesito “che cosa è la nazione?” è implicita: la nazione è quella comunità di uomini e donne che condividono storia cultura e stirpe perché i sovranismi derivano dai nazionalismi l'esaltazione dell'identità nazionale, identità che non appartiene a coloro che non possiedono quella storia quella cultura e quella stirpe e che quindi non dovrebbero essere considerati cittadini a pieno titolo neppure dopo aver acquisito legalmente la cittadinanza e aver appreso la lingua. La questione della lingua, che pure abbiamo visto essere stata tanto importante per l’antica Lega Nord, non sembra far parte dell’ideologia sovranista, forse perché adesso rischierebbe di aprire il pericoloso fronte delle minoranze linguistiche, come dimostra la recente iniziativa austriaca sul Sud Tirolo, se non addirittura quello delle possibili rivendicazioni delle piccole patrie, las chicas patrias spagnole citate da Hobsbawm, ma si potrebbe anche ricordare come, nel XVI secolo, Padova si sia rivolta all’imperatore per rivendicare indipendenza dalla Serenissima: dove finiscono i confini di una nazione? Così neppure i termini di cittadinanza e di cittadino sembrano far parte del vocabolario del sovranismo. Mentre continuamente e fin ossessivamente ricorrente è il richiamo al ‘popolo’, evidentemente identificato con la nazione.
Un fondamento, o, forse, almeno un pretesto a tale continuo riferimento al popolo è offerto dal primo articolo della nostra Costituzione, che, come tutti dovrebbero sapere, suona “La sovranità appartiene al popolo”, ma precisando “che la esercita nelle forme e nei limiti fissati dalla Costituzione”. Dunque il popolo è bensì ‘sovrano’, ma non un sovrano assoluto: c’è qualcosa che precede e determina tale sovranità, la Costituzione appunto, nata certamente anch’essa dalla volontà del popolo, ma da una volontà delegata, così come delegato sarà l’esercizio effettivo della sovranità del popolo. Proprio la democrazia delegata viene messa in discussione dai due partiti che sono oggi al governo dell’Italia. Tale critica dell’attuale democrazia parlamentare ha costituito il punto di partenza ‘ideologico’ del M5s, poiché coloro che ne sono stati i veri ispiratori, Casaleggio padre e figlio, gestori della piattaforma Rousseau, prevedevano e auspicavano una nuova forma di democrazia diretta, resa possibile dall’impetuoso sviluppo della rete, forse ricordando un detto del grande illuminista: “chi delega abdica”. Di fatto si sarebbe trattato di una democrazia referendaria o plebiscitaria in quanto tutti i provvedimenti del governo avrebbero potuto\dovuto venir confermati con referendum popolari da svolgersi in rete. Oggi "questo mito della democrazia diretta", come lo definisce Marco da Milano sull' "Espresso" del 4 novembre, sembrava dimenticato, ma in verità si perpetua nella sottile, costante polemica contro gli eccessivi costi dei parlamenti nazionali e regionali. La contestazione della Lega non ha mai conosciuto una simile formulazione teorica, che anzi sembra muoversi in direzione opposta, basandosi su una contrapposizione fra gli organi elettivi, legittimi, e quelli che elettivi non sono e che, per ciò stesso, dovrebbero essere ridotti a mera funzione esecutrice. “Tutto il potere ai Soviet”, viene voglia di dire, ma in realtà c’è la sensazione che il potere sia piuttosto nelle mani di quell’unico Eletto, che ha il diritto di rivolgersi al popolo, di cui, in quanto eletto, interpreta la volontà.
Diversi autorevoli commentatori, come Paolo Mieli (“Il Corriere della Sera” del 29 ottobre), hanno giustamente ritenuto inopportuno rilanciare continue accuse di fascismo contro avversari politici, argomentando da un lato dall’impetuosa crescita del fascismo tra il 1919 e il 1922, quando esso si pose al centro dell’attenzione dei giornali, e, dall’altro, dal fatto che il fascismo si era dotato di una complessa e articolata struttura ideologica (ma ciò avvenne soltanto con Giovanni Gentile nel 1932): il ripetersi di tali accuse finisce per costituire una cassa di risonanza che favorisce la diffusione di slogan fascisteggianti.
Ma il punto è un altro: il popolo, anche se ridotto a coloro che condividono storia cultura e stirpe, non condivide idee e valori, che anzi proprio in questa molteplicità di idee e di valori, e quindi di desideri e di prospettive, consiste la sostanza stessa della democrazia. Vietare il pensiero è evidentemente un puro paradosso, ma fino a che punto è lecito vietarne l’espressione, considerandola in certo modo il primo passo di una pratica e di un’azione lesive dei principi enunciati dalla costituzione, che i cittadini sarebbero, almeno in astratto, tenuti a accettare? Il divieto di ricostituzione del partito fascista è già nella Costituzione, ma di recente è stata approvata una legge del deputato Emanuele Fiano che ne rende reato l’apologia e la propaganda tramite i simboli del fascismo. In pratica il divieto riguarda soltanto i simboli del fascismo, ma anche con questa pesante limitazione essa si rivela inapplicabile. Un recente libro di Paolo Berizzi, NazItalia: Viaggio in un Paese che si è riscoperto fascista, elenca con caparbia minuzia un impressionante numero di persone, gruppi e associazioni che – in rete, protetti dall’anonimato, ma anche pubblicamente, più o meno direttamente inseriti negli ambienti più diversi, dagli ultrà sportivi alla musica rock alla malavita – manifestano ed esaltano l’ideologia fascista, esibendone i simboli e finanche le divise. Mi risulta che solo in pochissimi casi la magistratura abbia aperto un fascicolo su queste notizie di reato.
Tutto ciò significa che il moderno sovranismo possa essere identificato con il fascismo? Certamente no. Ma è impossibile non rilevare come tutti i paesi sovranisti – il gruppo di Visegrad, la Turchia di Erdogan e la Russia di Putin – hanno governi più o meno esplicitamente autoritari. E a questi paesi guardano con ammirazione e come ad esempi i movimenti sovranisti nostrali e di molti altri paesi europei. Certamente tali governanti e tali movimenti non condividono la complessa ideologia del fascismo quale fu formulata da Giovanni Gentile nel 1932. E probabilmente neppure la conoscono. Ma bisogna ricordare che quell’ideologia muove da due indefettibili caposaldi: il Führerprinzip e l’esaltazione dell’identità nazionale con la connessa difesa della stirpe, o della razza. Oggi tale difesa della stirpe, se non della razza, si manifesta anzitutto con la decisa lotta contro l’immigrazione, la quale sembra poter essere condotta solo sotto la guida di un Capo energico e decisionista. Comunque, il contrasto all’immigrazione è spesso soltanto una faccia del rifiuto dello straniero. Spesso, ma non sempre, talvolta movendo da considerazioni di ordine puramente economico, ciò che spiega l’adesione di tanti lavoratori ai partiti anti-immigrati. E l’avversione nei confronti dello straniero è stata la causa prima dei più grandi delitti della storia, dalla strage degli Armeni alla Shoa. In Africa se ne potrebbero contare numerosi altri, più o meno noti esempi. Ma il caso più tristemente recente, è quello dell’espulsione dei Rohingya dalla Birmania. Lo percepisco come il più triste, anche se si è risolto senza spargimento di sangue, perché si è consumato sotto il silenzio della donna che era parsa il primo grande difensore della democrazia e della pace, Aung San Suu Kyi. Non sempre chi tace acconsente, ma il silenzio è spesso il primo passo verso la rassegnazione o la sottomissione.
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Grazie, Cesare, non conoscevo il Teatro Povero di Montichiello, l'articolo mi ha regalato molte cose
Grazie Cesare per il bell'aricolo su Andrea Cresti e sul Teatro Povero di Monticchiello, che ho avuto la fortuna di vedere diversi anni fa
Grazie Cesare x questo articolo che celebra una infinita ricchezza umana artistica volata via in questo tempo buio in cui Thanatos si aggira indisturbato per le strade.....
Bellissimo articolo scritto con il cuore...grazie per averlo condiviso.