PER GIANNA DEIDDA. IN MORTE

 

Un giorno, Gianna Deidda ha interpretato Eleonora Duse nel ruolo di Margherita Gautier nell’ultimo atto della Signora dalle camelie: interpretazione di una interpretazione. Ma in verità il verbo ‘interpretare’ non è quello giusto: non in questo caso. In quell’occasione Gianna ha ‘rievocato’ quel celeberrimo episodio della storia del nostro teatro, facendolo rivivere agli spettatori, ma come nel sogno di quella  irreale verità che è, forse, l’essenza stessa del teatro. E fu credibile, anche, ma certo non soltanto, per una ragione molto banale: in certa misura Gianna assomigliava a Eleonora – come lei era piccoletta, bruttina, se vogliamo dirla tutta, priva di quella prestanza fisica che quasi impone l’attore al suo pubblico o di quella potenza vocale che era il vanto dei grandi tenori. Insomma, come ebbe a dire di Eleonora George Bernard Shaw, non aveva nulla: nulla, tranne il suo genio.

  Ovviamente ci sono delle differenze, anche molto profonde. Il viso, anzitutto: Gianna non aveva nulla di quella disperata intensità che faceva della Duse un’attrice alla fine monodica, con la sua sempre presente individualità umana che traspariva da quella fantastica del personaggio – ma era proprio questo il vanto del ‘grande attore’.

  Ho disturbato (ma la colpa è di GBS)  una parola importante: ‘genio’. Certo Leonardo era un genio, ma un attore? Via! Se Gianna Deidda aveva una sua ‘genitalità’, questa va certo prima di tutto individuata in quell’enorme versatilità e quella incredibile energia che le permettevano di tenere la scena per più di un paio d’ore, recitando, cantando, danzando e recitando in diverse lingue: non risulta che Eleonora sapesse cantare e ballare, anche se, nell’ultimo atto? di Casa di bambola era stata chiamata a ballare una ‘danza indiavolata’. E tuttavia, aldilà di questa versatilità, che la Duse non aveva, in Gianna Deidda permane, come nella Duse, quella assoluta identità che permetteva di individuarla come unica fra i venti attori che danzavano, diretti da Gianfranco Pedullà in Arcitaliani di Massimo Sgorbani, come se lo sguardo dello spettatore si fosse trasformato in un magico zoom.

  Cosa ci vuole per essere (o per diventare?) un grande attore?

  Nell’Ottocento ‘grande attore’ era una sorta di categoria alla quale ci si poteva iscrivere avendo soddisfatto le condizioni fisiche accennate, alle quali solo i più grandi potevano rinunciare, come Gustavo Modena, il primo vero ‘grande attore’, che era piccoletto e rotondo. Infatti della Duse qualcuno arrivò a dubitare che fosse veramente una grande attrice. Oggi, la categoria è piuttosto desueta, e il titolo viene piuttosto attribuito a furor di popolo (o di stampa), condizione primaria essendo la ‘simpatia’. Ricordo ancora le moltissime pagine dedicate dalla stampa italiana, “Corriere della Sera” in testa, alla memoria di Marcello Mastroianni, il giorno dopo la sua morte: certo un importante uomo di governo o, tanto meno, un grande scienziato, non avrebbe potuto aspettarsene tante. Mastroianni era attore, soprattutto cinematografico certamente di alto livello, tanto versatile quanto espressivamente intenso, ed era anche molto bello e simpatico. Quindi piaceva soprattutto alle donne, ma non mi risulta, per fortuna, che se ne sia suicidata qualcuna, come era successo per Rodolfo Valentino.

  Recentemente è morta Nadia Toffa, una presentatrice televisiva che, personalmente, non avevo mai visto, ma che pare fosse straordinariamente  simpatica: non dunque un’artista, come pretendono di essere gli attori, certamente apprezzata per la sua bravura e per la sua simpatia. Sta di fatto che ai suoi funerali hanno partecipato quasi tutti i cittadini di Brescia, forse considerandola una gloria locale, ma certamente grazie alla sua simpatia.

  Cinema e TV sembrano fatti apposta per diffondere l’immagine di un personaggio e quindi per renderlo famoso, ma è ben strano, a pensarci, che ci si possa innamorare di lui, almeno se non si identifica  amore con desiderio.

  Ai funerali di Gianna (la quale, tra parentesi, ha avuto il cattivo gusto non solo di morire, ma di farlo anche nel più torrido Ferragosto) c’erano un centinaio di persone, non dunque una massa oceanica, ma cento persone che l’avevano conosciuta direttamente, e che l’avevano apprezzata non soltanto come attrice, ma anche per le sue doti umane, per le molteplici attività cui si era dedicata anche nel sociale, per la sua generosità e anche, ma sì!, per la sua simpatia.

  Gianna aveva tre amori: il suo Andrea, che l’aveva aiutata a maturare come attrice, ormai quasi trent’anni or sono e la cui opera lei ha continuato a coltivare e a rappresentare, arrivando recentemente a pubblicarne l’opera omnia, anche grazie al generoso aiuto di Alessandro Cevenini; la sua Sardegna, di cui in molti spettacoli ha esaltato la bellezza e le tradizioni; e il teatro che ne costituiva una sorta di sintesi.

  Ed è per questo che oggi vogliamo ricordarla soprattutto come attrice, e, a dispetto del fatto che i giornali si siano così poco occupati di lei, come una ‘grande’ attrice.

Commenti

23.09.2020 11:51

Iri

Molto interessante, ma per me troppo "specialistica". La inoltro a mio fratello, che è uno studioso di Shakespeare