TRADURRE SHAKESPEARE (Macbeth V,5)
TRADURRE SHAKESPEARE (Macbeth V,5)
La riflessione di Macbeth alla notizia della morte della moglie è certamente uno dei brani più alti della letteratura mondiale. Shakespeare ha spesso concentrato la sostanza del suo pensiero e della sua poesia nei così detti ‘monologhi’ dei protagonisti dei suoi drammi (raccolti prima da Guido Davico Bonino, Einaudi 2005 e poi da Valeria Bricoli, Audino 2010): basti ricordare quello celeberrimo di Amleto (To be or not to be, Hamlet. III,1), ma anche quelli di Otello (Most grave and reverend signiors, Othello, The moor of Venice, I,3) e di Shylock (Signior Antonio, many a time and oft, The merchant of Venice, I,3) o quello di Riccardo III (Now is the winter of our discontent, King Richard the third, I,1); questi ultimi sono però discorsi rivolti agli interlocutori, mentre quelli di Macbeth e di Amleto sono meditazioni tutte interiori al personaggio. Ma questo di Macbeth è in qualche modo il più impressionante per lo spietato realismo del pensiero come per il frenetico susseguirsi di straordinarie immagini.
Il problema della traduzione – per non dire della sua stessa possibilità – ha impegnato studiosi e scrittori di prima grandezza, da Schleiermacher a Madame de Staël a Umberto Eco, per citare soltanto i più conosciuti. Altri lo hanno appena sfiorato: Benedetto Croce, come ben noto, ebbe a dire che la traduzioni sono come le donne “belle e infedeli o brutte e fedeli”, forse accennando al fatto che le donne belle, essendo più corteggiate, corrono più spesso il rischio di cadere in tentazione, così come i traduttori che pretendono di esibire il proprio stile, sono più disposti a rinunciare all’aderenza alla lettera del testo; mentre Edoardo Sanguineti sostenne, nel corso di un intervento estemporaneo, che il lettore si illude di leggere il testo di un certo autore, mentre in realtà legge soltanto quello del traduttore.
Con questo saggio, breve, ma certamente di ostica lettura, me ne rendo ben conto, ho cercato di portare qualche esempio di come alcune traduzioni (che sono pur sempre delle interpretazioni) abbiano potuto non solo trasporre in altre lingue il testo shakespeariano, ma anche, talvolta, scoprirvi inattesi significati e recondite sfumature. La cosa è particolarmente significativa in quanto si tratta di tradurre dall’inglese, una strana lingua, fondamentalmente germanica, ma con un buon venti per cento di parole latine (dovute, oltre che ai normali prestiti, alla non lunga permanenza nell’isola britannica delle legioni romane e ai Normanni che la invasero nel 1066), donde la frequenza di sinonimi come ‘liberty-freedom’ che fa dell’inglese la lingua europea dal vocabolario più ricco (e dalla pronuncia più incerta).
Ho preso in esame sei traduzioni italiane, due francesi, due spagnole e una tedesca (la più illustre), scelte, confesso, in maniera piuttosto casuale, ciò che peraltro garantisce una certa obiettività. Non ho inteso confrontare queste traduzioni nel loro insieme, tanto meno per darne un giudizio di merito, ma solo proporre, analiticamente le soluzioni proposte, frase per frase o parola per parola.
She should have died hereafter;
There would have been a time for such a word.
To-morrow, and to-morrow, and to-morrow,
Creeps in this petty pace from day to day
To the last syllable of recorded time,
And all our yesterdays have lighted fools
The way to dusty death. Out, out, brief candle!
Life's but a walking shadow, a poor player
That struts and frets his hour upon the stage
And then is heard no more: it is a tale
Told by an idiot, full of sound and fury,
Signifying nothing.
I due primi versi del grande, quanto brevissimo monologo di Macbeth – 12 versi in tutto contro i trenta del più noto monologo di Amleto – non fanno veramente parte della straordinaria riflessione sul tempo la vita e la morte che costituisce il corpo del monologo, anche se ne menzionano tutti i temi. Essi sono piuttosto l’immediata risposta, o reazione, all’annuncio della morte di lady Macbeth datogli da Seyton in termini secchi ed essenziali: “la regina è morta, mio signore”. Il primo di questi due versi è particolarmente intrigante, anche dal punto di vista banalmente grammaticale: il verbo “should” può infatti essere interpretato come valore assoluto, e in questo caso vale “doveva” o “dovrebbe” oppure come semplice ausiliare a formare un condizionale. Nel primo caso una traduzione letterale (se pure una cosa del genere può veramente esistere) dovrebbe suonare qualcosa come “doveva – o dovrebbe – essere morta più tardi”, ossia “doveva morire più tardi” (anche se va ricordato il celeberrimo frammento di Saffo che dice “vorrei veramente esser morta”); mentre nel secondo l’espressione varrebbe “sarebbe (comunque) morta più tardi”. Nel primo caso cioè si tratterebbe come di una speranza, o, almeno, di una possibilità perduta, mentre, nel secondo, di una semplice constatazione – “alle müssen sterben” dice un ben noto adagio tedesco: tutti dobbiamo morire.
Il verbo inglese ‘to shall’ significa ‘dovere’, ma non nel senso di un dovere imposto (in questo senso si usa piuttosto ‘ought’), bensì di una necessità implicita e per ciò stesso fatale, ed è per questo che viene usato per formare il futuro: ‘I shall go’ andrò, cioè devo andare, ma questo vale solo per la prima persona, per le altre il futuro viene costruito con ‘to will’, volere, come se il mio futuro non potesse essere una scelta, al pari del tuo. Ma, in questo caso, il verbo viene usato all’imperfetto o, piuttosto, al condizionale, come se lady Macbeth avesse potuto operare una scelta, optando per la morte. Ed è vero che si tratta di un condizionale improprio, giacché alla terza persona il condizionale avrebbe dovuto essere costruito con ‘would’, quasi facendo della morte della lady una sopraffazione.
Comunque sia di ciò, tutti i traduttori in lingue romanze italiani francesi e spagnoli che ho potuto prendere in considerazione hanno letto quel “she should”, nel suo significato assoluto, non cioè come indicazione di un condizionale: così Carlo Rusconi traduce “ella avrebbe dovuto almeno morir più tardi”, esattamente come Cino Chiarini, mentre Agostino Lombardo introduce una variante meramente stilistica: “Sarebbe dovuta morire, prima o poi”; d’altra parte Vittorio Gassman altera alquanto il significato, facendone quasi una sorta di appunto: “più tardi doveva morire”. Non molto diversamente François Victor-Hugo traduce “Elle aurait dû mourir plus tard”, mentre gli spagnoli puntano a sottolineare il “she should” usando “habìa que” o l’ancora più forte “tenìa que“.
Friedrich Schiller tradusse Macbeth in vista di una rappresentazione, al teatro di corte di Weimar, nel 1800. Forse perché più aduso dei latini alla funzione meramente grammaticale dei verbi ausiliari, ma certo anche perché, come drammaturgo, era più attento alla pregnanza della singola parola, eliminò ogni riferimento al concetto di ‘dovere’, iniziando il verso con un semplice condizionale del verbo ‘essere’: ‘Wär' sie ‘, che in verità corrisponde esattamente all’inglese, solo che questa lingua, essendo tenuta a giovarsi dell’ausiliare, introduce, per così dire surrettiziamente, l’idea di ‘dovere’, traendo così in inganno i traduttori latini, che interpretano l’ausiliare come verbo assoluto. Con un’interpretazione peraltro non certo di per sé errata, soprattutto se si tiene conto della connotazione di fatalità, che il concetto di ‘dovere’ implica. “Wär' sie ein andermal gestorben!”, alla lettera “sarebbe lei morta un’altra volta”, dove il verbo ‘essere’ (sein) comporta un valore di assoluto che supera, o trascende, quello di ‘dovere’, oscurandone anche la funzione ausiliare. Schiller, come fra gli italiani il solo Agostino Lombardo, traduce in versi gli endecasillabi shakespeariani, così la ripetizione del verbo all’inizio del verso successivo, sia pure in forma impersonale (Es wäre) assume un rilievo che il ripetuto ‘sarebbe’, usato, per es., da Agostino Lombardo non riesce ad avere. Anche se poi Schiller traduce ‘word’ con ‘Botschaft’ (notizia, o ‘novella’ come traduce Carlo Rusconi), termine evidentemente più preciso, ma anche più materialmente definito, e quindi incapace di richiamare il valore metafisico e creatore del ‘verbum’ giovanneo. D’altra parte gli spagnoli preferiscono tradurre il temine al plurale – esas palabras o tales palabras, comunque preferibili al ‘siffatta’ di Lombardo.
Ma veniamo alla grandiosa riflessione, che si esaurisce nel breve giro di dieci versi e che nasce proprio sull’onda di quella parola non pronunciata in termini sostantivali – lo sarà soltanto quattro versi dopo: ‘death’, morte. La morte è il domani, l’assoluto del futuro.
Non è certamente il caso – e, del resto, non ne sarei in grado – di speculare sul significato etimologico di ‘to-morrow’, parola composta, corrispondente a ‘to-day’ (oggi). Comunque il famosissimo verso “To-morrow, and to-morrow, and to-morrow” alla lettera vale semplicemente “domani, e domani, e domani”. Tuttavia pochi traduttori (Elio Chinol e Agostino Lombardo) si sono attenuti a questa ovvia traduzione, probabilmente per scoprirvi una qualche recondita assonanza o sfumatura.
Goffredo Raponi, traducendo – come farà anche Vittorio Gassman – “Domani, e poi domani, e poi domani” ha probabilmente inteso rallentare per quanto possibile il tempo della dizione. Altri, come Cino Chiarini, si limitano a sostituire la congiunzione inglese ‘and’ con ‘poi’, accentuando così non tanto il ritmo, quanto il valore semantico del succedersi dei domani. Similmente François Victor-Hugo traduce “Demain, puis demain \ puis demain”, ma, terminando il verso dopo il secondo ‘demain’, pone la scottante questione del valore grammaticale del termine: avverbiale o sostantivale? Nella proposta di Chiarini, il quale rende per così dire assoluti i tre ‘domani’ concludendoli con i due punti (:) dichiarativi la questione resta impregiudicata, tanto che, per chiarirne il valore – semantico e grammaticale – egli sente necessario ripetere “ogni domani” come soggetto della frase successiva.
Carlo Rusconi è decisamente orientato ad attribuire al triplice ‘domani’ valore sostantivale e di soggetto, aprendo la frase con un ‘così’ e rafforzando la ripetitività del terzo ‘dimani’ con un ‘ancora’ che richiama la soluzione proposta da Schiller il quale aveva tradotto “Morgen, Morgen \ Und wieder Morgen” (Domani, domani e di nuovo domani); ma la traduzione di Rusconi – “Così il dimani, poi il dimani, poi un altro dimani ancora ci sorprende” – rimane più incerta poiché ‘ancora’ può essere riferito sia a ‘dimani’ (come è certamente il ‘wieder’ di Schiller) sia al successivo “ci sorprende”: sono i limiti e i vantaggi delle traduzioni in prosa, che, almeno in teoria, dovrebbero lasciare più spazio ai ritmi della dizione.
François Guizot sembra optare per la seconda soluzione, traducendo “Demain, demain, demain,” ma lo fa ambiguamente perché, chiudendo il verso con una virgola, impedisce che ‘demain’ valga come soggetto del successivo ‘se glisse’.
E’ invece fino eccessivamente esplicita la scelta di un’anonimo traduttore spagnolo, il quale, traducendo il triplice ‘to-morrow’ con “El dìa demañana, y de mañana, y de mañana” sembra voler accentuare l’unicità del soggetto, la ripetizione essendone solo un rafforzativo. Del tutto inconsueta è invece la soluzione proposta da Alonso Plou, il quale, traducendo “Mañana, o mañana, o mañana”, cioè sostituendo la congiunzione ‘and’ (che, in castigliano, suonerebbe ‘y’) con l’oppositiva ‘o’, sembra voler indicare non il domani, ma ‘un’ domani.
La magìa del testo shakespeariano sta anche in questo, che i tre ‘to-morrow’, anche se percepiti come sostantivo, e quindi come soggetto, sono in realtà uno soltanto, poiché il verbo con cui si apre il verso successivo è alla terza persona singolare – grammaticalmente il soggetto è il successivo ‘petty pace’. To creep’ può significare qualcosa come ‘insinuarsi’, ma, etimologicamente viene dall’arrampicarsi dell’edera su una parete o su una pianta.
Gli italiani hanno per lo più tradotto ‘creeps’ con ‘striscia’, anche in quanto ‘strisciare’ connota il movimento sinuoso ed elegante, ma minaccioso del serpente. Non molto diversamente i francesi traducono con ‘glisse’, Victor-Hugo, o ‘se glisse’, Guizot. Ma il verbo ‘glisser’ significando in prima istanza ‘scivolare’, il riflessivo di Guizot accentua la connotazione di ‘insinuarsi’. Degli spagnoli, il primo, che aveva tradotto ‘to-morrow’ con “el dìa de mañana”, opta per ‘se desliza’, che potrebbe valere qualcosa come ‘si fa scorrere’, mentre Alonso Plou preferisce ‘se cuela’, cioè ‘si insinua’, ma anche ‘sgattaiola’.
L’unica vera eccezione è costituita da Carlo Rusconi, che sceglie di trasferire l’immagine dalla causa all’effetto, traducendo ‘creeps’, con ‘sorprende’, ciò che, peraltro, lo costringe a rinunciare allo sviluppo dell’immagine in cui il domani assume quasi forma umana, o animale, come suggerisce l’aggettivo ‘petty’, tradotto per lo più con ‘piccolo’ (a piccoli passi – Schiller, mantenendo il singolare dell’inglese, traduce “in seinem kurzen Schritt”, nel suo corto passo), ma che in realtà significa piuttosto ‘infantile’, poiché ‘pet’ è il cucciolo degli animali.
Dunque, con questo camminare incerto, fatto di passi corti e impacciati, il domani striscia, o si trascina – a mala pena potremmo dire ‘trascorre’ – “from day to day”, ossia “da un giorno all’altro” come traduce la maggior parte degli italiani, o “un giorno dopo l’altro”, come preferisce dire Raponi, ossia “de jour en jour”, come forse più esattamente scrive Victor-Hugo, mentre gli spagnoli stringono l’espressione in “dìa a dìa”.
Tutti i traduttori hanno premesso a “To the last syllable” una preposizione indicante conclusione: ‘fino a’ gli italiani, ‘jusqu’à’ i francesi, ‘hasta’ gli spagnoli, ‘bis zum’ Schiller. Il testo shakespeariano non contempla tale sottolineatura, affidando il significato di ‘conclusione’ soltanto all’aggettivo ‘last’, che gli italiani traducono con ‘ultima’ o ‘estrema’ (Raponi), il solo Gassman tentando una sorta di precisazione, in verità piuttosto incauta: traducendo “verso la zeta” egli non solo trasforma il concetto di ‘sillaba’ in quello alfabetico di ‘lettera’, ma esclude anche l’idea di un percorso. Guizot e Victor-Hugo traducono entrambi con ‘dernière’, mentre gli spagnoli preferiscono ‘final’, ad accentuare l’idea di conclusione. Ma l’anonimo rimane troppo legato all’immagine, come dire?, alfabetica, ciò che lo induce a tradurre “recorded time” come “con que el tiempo se escribe”, lontano da ogni possibile significato dell’inglese “recorded time”.
Un’espressione che ha imbarazzato un poco tutti, forse perché il verbo ‘to record’, con il suo suono latino richiama l’idea di ‘memoria’ (o addirittura di memoria emotiva: richiamare al cuore), che del resto non gli è affatto estranea, visto che, in linguaggio moderno, il sostantivo ‘record’ ha potuto significare anche ‘disco (musicale)’. Ma, in questo contesto esso vale piuttosto ‘assegnare’ o ‘prescrivere’, proprio in quanto ‘registrato’ come una legge. Così, in effetti Alonso Plou traduce “recorded time” con “tiempo prescrito”; mentre Guizot cerca di precisare parlando di “temps inscrit”, forse nel senso letterale di “scritto dentro (ciascuno)”. Ma è solo il vecchio Goffredo Raponi a cogliere con esattezza il senso dell’espressione, traducendo con “il tempo assegnato” che si avvicina all’ancora più preciso “uns zugemeßnen Zeit” schilleriano, che potremmo a nostra volta tradurre come “il tempo misurato per ciascuno di noi”.
Nel verso successivo il domani si rovescia nello ieri: non c’è opposizione, anzi, il verso si apre con la congiunzione ‘and’. Tuttavia, mentre il triplice to-morrow valeva come uno soltanto, il verbo retto (‘creeps’) essendo declinato al singolare, gli ieri sono molti “all our yesterdays”: al contrario dei domani gli ieri possono essere contati. In effetti italiani e francesi traducono alla lettera con “tutti i nostri ieri – tous nos hier” – mentre gli spagnoli preferiscono il singolare, “todo nuestro ayer” ‘todo’ valendo come ‘ogni’. Di conseguenza, il relativamente insolito, ma qui pregnante passato prossimo plurale dell’inglese – “have lighted” – diventa un passato remoto singolare (lo spagnolo usa raramente il passato prossimo): ‘iluminò’, che in Schiller diventa “haben…hingeleuchtet”, dove il prefisso ‘hin’ indica la direzione della luce puntata sulla tomba. Va peraltro segnalato come Victor-Hugo e Guizot pur mantenendo, come detto, il verbo al passato prossimo, lo sviluppano in una specie di litote, traducendo “have…lighted” con “n’ont fait qu’éclairer” (Victor-Hugo) o “n’ont travailler…que” (Guizot), il quale ultimo è, peraltro, responsabile di un grave fraintendimento, attribuendo il successivo ‘fools’, a ‘yesterdays’, come apposizione: “tous nos hier n'ont travaillé, les imbéciles, qu'à nous abréger le chemin”, mentre, di tutta evidenza, ‘fools’ va letto, come fanno tutti gli altri, come complemento di termine, ai quali è stata illuminata la strada che conduce alla morte: “the way to dusty death”.
Questa è un’altra espressione che ha creato disagio: alcuni, come Goffredo Raponi e Carlo Rusconi, hanno evitato l’impasse semplicemente eliminando l’aggettivo ‘dusty’ (polverosa), che, se dal punto di vista grammaticale va, di tutta evidenza, attribuito a ‘death’ (morte), a qualcuno è parso logico connetterlo a ‘way’, senza considerare che ‘way’ significa propriamente ‘via’ e solo per estensione può voler dire ‘strada’. Così Vittorio Gassman ha tradotto “il sentiero polveroso che conduce alla morte”. Similmente gli spagnoli hanno tradotto “la senda de ceniza de la muerte” e “la senda polvorienta que lleva a la muerte”. Al contrario Guizot e Victor-Hugo, rispettando la lettera del testo inglese, traducono con “le chemin de la mort poudreuse”; una scelta che corrisponde quasi esattamente a quella di Agostino Lombardo, il quale però, da una parte, preferisce ‘via’ a ‘chemin’ forse più concreto, ma meno assonante all’inglese ‘way’, dall’altra rafforza l’idea del percorso, traducendo “la via che conduce alla morte polverosa”, mentre Cino Chiarini, quasi a materializzare l’idea della morte, trasferisce l’aggettivo in sostantivo: “la via che conduce alla polvere della morte”. Schiller, come accennato, elimina l’idea stessa del percorso e si riferisce alla morte con la sineddoche della tomba (‘Grabe’, termine neutro, mentre ‘morte’ (Tod) è maschile), ma una tomba piena non già di polvere, sebbene di marciume (‘modervoll’).
Il passaggio dal tema della morte a quello della vita – la vita infatti succede alla morte – è segnato da un sipario, da un buio: “out, out, brief chandle”, breve espressione che può suonare come un ordine o, meglio, come un’invocazione, e che sopporta molte traduzioni-interpretazioni. ‘Out’ infatti può valere in prima istanza ‘fuori’ o ‘via’, ma anche ‘spento’. Così Elio Chinol, con una certa ridondanza, quasi a voler esplicitare i due significati di ‘out’, la legge come “via via, spegniti breve candela”; una ridondanza evitata da Chiarini: “spegniti, spegniti, breve candela”, così come fanno i due francesi, i quali traducono entrambi “Eteins-toi ,éteins-toi, court flambeau”, dove peraltro ‘flambeau’ vale ‘torcia’ piuttosto che ‘candela-chandelle’, così come l’ ‘atorcha’ usato dall’anonimo spagnolo, mentre Alonso Plou mantiene ‘candela’. Ma entrambi traducono l’aggettivo ‘brief’ con un certamente efficace, ma improprio ‘fugaz’ e ‘out’ con ‘extinguete’ invece che con ‘apagate’ che sarebbe più prossimo allo ‘spegniti’ degli italiani e allo ‘éteins-toi’ dei francesi. Ho appena accennato al ‘fugaz’ con cui gli spagnoli hanno tradotto l’aggettivo inglese ‘brief’, per il quale la maggior parte degli italiani e dei francesi hanno usato invece ‘corta’, mentre Schiller traduce con ‘piccola’: “du kleine Kerze”; il solo Raponi avendo invece mantenuto ‘breve’, a indicare la durata della luce della candela, non le sue dimensioni. D’altra parte Carlo Rusconi è l’unico che cambia decisamente l’ambito semantico sia dell’aggettivo sia del sostantivo, traducendo “brief chandle” con “lampada ingannatrice”, forse a motivare la ragione dell’esigenza di spegnere quella luce, che non permetterebbe certo di vedere quel fantasma che è la vita.
Schiller è il solo a formulare la domanda di cui i versi successivi costituiscono la disincantata risposta. Ma è una domanda – “Was ist Leben?” – che potrebbe anche voler dire “Cosa significa vivere”, poiché per intendere propriamente ‘la vita’ avrebbe dovuto, o comunque potuto premettere a ‘Leben’ l’articolo: “Was ist das Leben?”. Di fatto, però, la risposta si apre con un sostantivo indeterminato “Ein Schatte” (un’ombra), seguito da una relativa, “der vorüber streicht" (“che si trascina in avanti”), evitando altresì quel ‘but’ dell’inglese “Life’s but a walking shadow” che è stato variamente tradotto: ‘but’, congiunzione oppositiva, significa inizialmente ‘ma’, potendo però valere anche per ‘tranne’, e quindi per ‘solo’, sopporta tutte le accezioni utilizzate dai traduttori, con diversi risultati non soltanto stilistici.
I traduttori spagnoli preferiscono appunto ‘sólo’, ma mentre Plou traduce “la vida es sólo una sombra errante”, l’anonimo, usa un rafforzativo ‘tan sólo’ (che può corrispondere all’italiano ‘soltanto’), ma per qualche sua ragione elimina ‘walking’, scrivendo “la vida es una sombra tan sólo”. Soluzione adottata anche da alcuni italiani, come Gassman che traduce “la vita è soltanto un’ombra errante”, e Raponi che opta per “la vita è solo un’ombra che cammina”. Ma, bisogna dire, la maggior parte dei francesi e degli italiani coglie la pregnanza di quel ’but’, ciò che peraltro li costringe a svolgerlo in tre parole: ‘non è che’ (Lombardo e Cini) ‘n’est que’ (Victor-Hugo e Guizot). Queste considerazioni possono apparire del tutto marginali, ma forse non lo sono perché quella piccola parola ‘but’ riesce a cancellare tutta la (presunta?) grandiosità della storia umana.
Da qui il turbamento dei traduttori nell’affrontare le successive definizioni della vita, tutte riferite ai concetti di illusione o di finzione: “a walking shadow”, alla lettera “un’ombra che cammina”, come infatti traducono i più (Raponi, Chiarini, Lombardo), o “une ombre qui marche” (Guizot), mentre altri, forse perché pensano che il camminare comporti pur sempre una direzione, quindi uno scopo, preferiscono dire ‘errante’, come Gassman, Alonso Plou e Victor-Hugo, il quale però sostituisce ‘ombra’ con ‘fantome’, termine che connota piuttosto un’apparizione. Rusconi infine traduce ‘walking’ con ‘incerta’, come trasferendo l’azione al portamento.
Un’ombra non ha consistenza materiale: è un fenomeno soltanto visivo, teoricamente dovrebbe essere la proiezione di un corpo solido, cui però non si fa cenno – ed è per questo che Victor-Hugo ha potuto tradurre ‘shadow’ con ‘fantome’, fantasma, qualcosa di creato dalla fantasia, privo di realtà autonoma. Diversamente l’attore – l’altra entità con cui viene confrontata l’essenza della vita – possiede una realtà materiale, addirittura umana.
Ma soffermiamoci anzitutto sul termine con cui egli viene designato: ‘player’. Shakespeare avrebbe potuto benissimo usare anche ‘actor’ (in Hamlet II,2 usa questo termine riferendosi a Roscio), ma ‘player’ ha un significato più ampio: derivando da ‘play’ (gioco) indica tutte quelle attività ritenute in qualche modo ludiche oltre che artistiche, come ‘suonare’. Ma in questo caso si tratta di “un povero attore”, “a poor player”, l’aggettivo essendo difficilmente riferibile alla sua povertà materiale – e, in effetti, nessun traduttore ha pensato di riferirsi ad essa. E, se molti, la maggior parte degli italiani e degli spagnoli, si sono attenuti alla lettera, traducendo “povero attore – pobre actor”, alcuni hanno operato una sintesi fra i due termini, come a indicare il livello artistico, o professionale del personaggio. Così, Gassman, uomo del mestiere, ha eliminato l’aggettivo e ha impiegato il termine ‘guitto’, lo spregiativo con cui nell’Ottocento si designavano gli attori girovaghi di infima categoria. Non molto diversamente Schiller, senza peraltro tagliare l’aggettivo, ha parlato di “Ein armer Gaukler”, “un povero ciarlatano”, non so se ricordando che, dal Cinque al Settecento almeno, una stessa persona poteva alternare, quando non addirittura identificare le due attività.
Un caso a parte è costituito dai due francesi, i quali traducono entrambi ‘player’ con ‘comédien’, non so se avendo presente la distinzione operata da Louis Jouvet : « L’acteur ne peut jouer que certains rôles ; il déforme les autres selon sa personnalité. Le comédien, lui, peut jouer tous les rôles. L’acteur habite un personnage, le comédien est habité par lui ». In italiano, invece, si dice ‘commediante’ di chi esibisce sentimenti forti e non provati per ottenere un suo scopo. Ma, mentre Victor-Hugo si attiene alla lettera, traducendo “un pauvre comédien”, Guizot non soltanto elimina l’aggettivo e quindi, quale che essa sia, la qualificazione socio-esistenziale dell’attore, ma anche premette a ‘comédien’ un “ressemble à” che indebolisce, o addirittura rinnega l’identificazione della vita con una recita assurda.
Traducendo “That frets and struts” con “che si pavoneggia e si agita”, Agostino Lombardo e Cino Chiarini si attengono quasi esattamente alla lettera del testo shakespeariano. Dico ‘quasi’ perché da un lato essi invertono l’ordine dei due verbi, talché il ‘pavoneggiarsi’ appare come la qualifica più propria e rilevante dell’attore, ma dall’altro anche perché tale verbo rimanda a un’immagine forte e quasi canonica, del tutto estranea al breve termine inglese. Similmente Victor-Hugo e Guizot scrivono “qui se pavane et s’agite”, ma non so dire se ‘se pavaner’ possa richiamare l’immagine del pavone (paon) che fa la ruota in modo così immediato come succede in italiano. Interessante è anche la proposta di Vittorio Gassman, il quale, considerando i due verbi quasi come una endiadi, traduce “s’agita un’ora pavoneggiandosi”. Non molto diversa è la soluzione a suo tempo avanzata da Goffredo Raponi, il quale però, traducendo “un povero attorello sussiegoso che si dimena”, da una parte trasforma la relativa in un aggettivo che descrive una qualità specifica dell’uomo-attore e dall’altra definisce il suo agire come un ‘dimenarsi’, cioè come un movimento irragionevole e incontrollato, certamente incapace, possiamo anticipare, di raccontare qualcosa, e tanto meno una storia.
L’immagine del pavone si ritrova anche nella versione spagnola di Alonso Plou –“se pavonea y retuerce” – dove però il secondo verbo “struts” assume il significato puramente (e negativamente) fisico di ‘contorcersi’, mentre, come accennato, ‘struts – si agita’ può avere anche una connotazione psicologica.
In Schiller l’immagine del pavone, ovviamente, non compare, ma egli usa due verbi molto forti, traducendo ‘frets’ con ‘zerquält’, che può valere addirittura ‘si tormenta’, e ‘struts’ con ‘tobt’ cioè ‘imperversa’, in qualche modo anticipando il contenuto della storia che l’attore dovrebbe raccontare (“sound and fury”), ma riducendola alla sua mera e incontrollata fisicità.
Di questa recita tanto assurda quanto intensa Shakespeare vuole anche precisare sia il tempo che il luogo: “his hour upon the stage”. Il luogo è precisamente definito: “sopra il palcoscenico” (come traduce esattamente il solo Raponi), poiché ‘stage’ possiede solo questo significato, anche se poi, per sineddoche, può voler dire ‘scena’ o ‘teatro’ – ‘to be on (the) stage’ può voler dire ‘lavorare in teatro’ ‘essere attore’. In verità il termine appare fin troppo nobile, proprio perché può far pensare a un vero teatro, mentre il “povero attorello” dello stesso Raponi o, a maggior ragione, il ‘ciarlatano’ (Gaukler) di Schiller potevano esibirsi su un qualsiasi tavolaccio montato lì per lì alla meno peggio. Comunque, la maggior parte degli interpreti traduce “sulla scena” (Chiarini Chinol Lombardo), ossia “sur la scène” (Victor-Hugo) o “sobre la escena”(Plou), dove la preposizione tende a chiarire che si tratta propriamente delle tavole del palcoscenico – altrimenti sarebbe stato più preciso tradurre “in scena”, come effettivamente fa Vittorio Gassman. Ma taluno ha preferito approfittare della estensibilità del termine ‘stage’, traducendolo con ‘théatre’ (Guizot) o addirittura con ‘escenario’ (Anonimo), che propriamente significa ‘scenografia’, forse non pensando che l’apparato scenografico del teatro elisabettiano si riduceva a pochi accessori.
La definizione del tempo è di ancora più incerta interpretazione. Anch’essa si risolve in due semplici parole: un pronome possessivo e un sostantivo cronologico: “his hour – la sua ora”, ma ‘sua’ nel senso che ne dispone o che vi è obbligato? e quale ora? Quella del suo breve spettacolo o del suo anche se modesto successo? Goffredo Raponi non ha dubbi: appoggiandosi al successivo “upon the stage” egli traduce “il tempo assegnato alla sua parte”, il breve momento in cui è stato vivo agli occhi del mondo. Agostino Lombardo e Cino Chiarini (le cui traduzioni sono spesso piuttosto simili) traducono entrambi “per la sua ora” evidenziando una durata con quel ‘per’ che nell’inglese resta sottinteso; mentre Gassman elimina anche il possessivo e, scrivendo “un’ora”, definisce soltanto la brevità del tempo di quella recita e cioè di quella vita. Victor-Hugo, scrivendo “durant son heure” come prosecuzione e completamento della descrizione dello spettacolo, pare voler accentuare, comunque, l’idea dello scorrere del tempo, che invece Guizot limita scrivendo semplicemente “une heure”, come fa anche Alonso Plou: “una hora”. Al contrario, l’anonimo spagnolo, traducendo “his hour” in modo improprio ma efficace, con “consume su turno” introduce in qualche modo l’idea di lavoro, di un compito previsto: è il tuo turno – si dice – di fare la sentinella, oppure, che so?, di lavare i piatti.
“And then is heard no more”: la congiunzione, posta all’inizio del verso, permette due diverse letture, che si rendono evidenti soprattutto nella dizione, la prima evidenziando la continuità dei due momenti (la recita e il silenzio), mentre la seconda tende a separarli nettamente. Questo, naturalmente comporta anche diverse interpretazioni del participio passato ‘heard’ ‘sentito’, ma anche ‘ascoltato’. Alcuni, in particolare fra quanti hanno considerato i due momenti come immediatamente successivi, hanno considerato ‘heard’ come direttamente riferito al ‘povero attore’. Così anzitutto Schiller, il quale elimina la congiunzione ‘and’ e traduce “dann hört man ihn nicht mehr” “poi non lo si sente più”. Similmente l’Anonimo spagnolo scrive “para jamàs volver a ser oìdo”, dove il verbo ‘volver’ (tornare) in luogo dell’avverbio ‘mehr’ rafforza l’idea che non ci sarà mai una seconda volta, una seconda occasione e cioè una seconda vita. Sostituisce poi l’avverbio temporale ‘dann’ con il finale ‘para’, trasforma l’impersonale in passivo, ma il senso dell’espressione resta sostanzialmente lo stesso: “per non essere più sentito”. In modo più semplice e ancora più esplicito Alonso Plou traduce “y después calla para siempre” – esattamente come Vittorio Gassmann: “e poi tace per sempre”. La soluzione proposta da Victor-Hugo “et qu’ensuite on n’entend plus” suona vagamente più ambigua in quanto ‘entendre’ può essere inteso anche come ‘sentir parlare’ (ma, in questo caso, il pronome dovrebbe essere preceduto da un ‘de’). Piuttosto vaga, ma certo più orientata alla seconda soluzione appare l’opzione proposta da Guizot “après quoi il n’en est plus question”, malamente traducibile come “dopo di che egli non ne costituisce più un argomento”.
La seconda interpretazione di quello ‘heard’ è certamente la più definitiva, la più disperata. Perché si tratta della cancellazione definitiva e irrimediabile della vita di un individuo: una damnatio memoriae, cui tutti, in qualche misura, speriamo di poterci sottrarre, perché il ricordo dei posteri è l’unica forma possibile di sopravvivenza. Così Elio Chinol traduce magistralmente, anche se certo non letteralmente ‘heard’ con “e non ne resta più memoria”. Carlo Raponi, traducendo “e poi di lui nessuno udrà più nulla” cioè trasferendo ‘is heard’ nel futuro ‘udrà’ ha evidenziato l’ineluttabilità del destino di ciascuno, che è assoluta come conferma la doppia negazione ‘nessuno – nulla’ possibile solo in italiano, ma non inglese. Piuttosto simile a questa è la proposta di Agostino Lombardo, il quale, se da un lato mantiene la doppia negazione rafforzativa, dall’altro, traducendo ‘is heard’ con l’impersonale presente ‘si ode’, rimane bensì più vicino alla lettera del testo, ma fa pensare piuttosto a un rumor, una chiacchiera che non a un destino fatale. In modo ancora più esplicito Cino Chiarini traduce “and then is heard no more” con “e poi non se ne parla più”: la tua realtà, la tua stessa esistenza sta tutta nelle mani di un’entità impersonale.
“it is a tale told by an idiot”. Almeno nelle edizioni moderne la seconda metafora viene aperta dai due punti (:) dichiarativi o esplicativi, in certo modo si tratta di una precisazione: la vita non è tanto la persona dell’attore, quanto la storia, per sua stessa essenza irreale che egli racconta. ‘Tale’ infatti significa bensì ‘storia’ ‘racconto’, ma anche ‘favola’ o ‘fandonia’. Ad eccezione dell’ultimo ‘fandonia’ tutti questi termini sono stati usati dai traduttori. ‘Racconto’ è naturalmente il più asettico e indeterminato: si può raccontare qualcosa di realmente accaduto come qualcosa di inventato. Esso è stato usato da Raponi e poi da Chinol fra gli italiani e, tra i francesi, da Guizot. I due spagnoli preferiscono entrambi ‘historia’. Similmente, gli italiani Lombardo Chiarini e Gassman traducono ‘tale’ con ‘storia’; mentre Schiller, seguito da Chiarini, opta per ‘favola’: ‘Märchen’.
Il verbo contribuisce a precisare il senso del sostantivo che lo regge. Il testo dice ‘told’, participio passato di ‘to tell’ che significa anzitutto ‘dire’, ma nel senso di ‘dire a’, solitamente seguito da due accusativi ‘tell me something’ vale ‘dimmi qualcosa’, solo che, in questo caso, il primo accusativo non c’è, il destinatario di quel ‘dire’ restando indeterminato. Tuttavia il solo a tradurre ‘told’ con il francese ‘dite’ (detta) è Victor-Hugo, il quale effettivamente pare più di tutti preoccupato di mantenersi aderente alla lettera del testo; peraltro, avendo come altri tradotto ‘tale’ con ‘histoire’, da un lato conferisce all’evento un certo sapore di realtà e, dall’altro, evita il pesante pleonasmo di Guizot: “un conte raconté”.
Dunque questo ‘tale’ (racconto, storia o favola) viene ‘detto’ o ‘raccontato’ ‘by an idiot’, da un idiota. Shakespeare usa qui una parola molto forte, alla cui etimologia vale forse la pena di fare un cenno: il sostantivo greco ιδιοσ significa semplicemente persona privata, ma nelle lingue moderne, romanze come germaniche, ha assunto un valore decisamente peggiorativo di persona completamente priva di senno, tanto da venire usato spesso come insulto. Shakespeare avrebbe potuto usare un termine meno violento, meno aggressivo, come ‘stupid’ o il quasi affettuoso ‘silly’ (‘sciocco sciocchino’), che non avrebbero fatto differenza sul piano metrico e di uso decisamente più comune. Scrivendo ‘idiot’ ha forse voluto indicare che questo nuovo narratore si colloca sull’ultimo gradino della scala sociale e intellettuale, qualcuno che parla senza assolutamente sapere quello che dice, come preciserà poco dopo.
Ovviamente quasi tutti traducono con il corrispondente ‘idiota’, italiano e spagnolo, e ‘idiot’, francese. Ci sono due sole eccezioni: quella dell’anonimo spagnolo, che scrive ‘necio’, sciocco, quasi a voler attenuare la violenza della parola inglese, e quella di Schiller, il quale scegliendo ‘Thor’ ‘pazzo’, al contrario sottolinea l’assurdità di quel racconto, cioè della vita stessa. Ma chi è questo idiota, questo sciocco, questo matto che si è preso la briga di raccontarla questa storia tanto chiassosa quanto inutile? Non è certo il “povero attore”: lui si limitava a esibirsi pavoneggiandosi e agitandosi, senza, pare, pronunciare neppure una parola. In qualche modo è come se si fosse passati dalla farsa non certo alla tragedia, ma almeno al melodramma. Il melodramma infatti è qualcosa di pieno, dove c’è di tutto, musica, scene, canto, gesti e perfino parole, anche se Stendhal, grande amatore del melodramma italiano, diceva che le parole è meglio non capirle affatto. Ma tale recita, seppure il racconto di questo idiota è assimilabile a una recita, è soltanto “full of sound and fury” “piena di suono e di furia”. Schiller però, forse argomentando che un racconto – o anche una ‘favola – ‘Märchen’, come egli l’ha definito – non può essere fatto se non di parole, traduce con “Voll Wortschwall”: “pieno di un ammasso di parole”. Per gli altri traduttori è stato il termine ‘sound’ a creare il maggiore imbarazzo. ‘Sound’ infatti significa propriamente ‘suono’, cioè un fenomeno acustico che possiede una propria leggibilità e, se così posso dire, una sua configurazione, se non addirittura una sua intenzionalità, diversamente da ‘noise’ ‘rumore’: tutti i ‘sounds’ sono anche ‘noises’, ma non vale la reciproca, non tutti i ‘noises’ sono anche ‘sounds’. Così nessuno ha tradotto ‘sound’ con ‘suono’: gli spagnoli hanno preferito ‘ruido’, come gli italiani ‘rumore’; dei francesi Guizot ha scelto ‘bruit’ e Victor-Hugo addirittura ‘fracas’ . Unica eccezione Vittorio Gassman, il quale, traducendo “colma di suoni e di furia” ha però usato il plurale, forse pensando, e non del tutto a torto, che un unico suono non sarebbe stato sufficiente a conferire al racconto (o alla recita?) un qualche significato, cioè appunto quanto la geniale contraddizione di Shakespeare-Macbeth nega: nonostante la presenza di quel suono, la storia raccontata non significa nulla: “signifying nothing”.
La prima difficoltà incontrata dai traduttori è stata la (quasi) necessità di sciogliere il participio gerundivo ‘signifying’ in una relativa, poiché la traduzione letterale ‘singificante nulla’ o ‘significando nulla’ è parsa a tutti improponibile: soltanto il tedesco avrebbe potuto usare il corrispondente participio ‘bedeutend’, ma Schiller ha preferito una congiunzione “und bedeutet nichts”, come a voler dire ‘non solo si tratta di un ammasso di parole, ma, per di più, non significa nulla’. Similmente sia Guizot che Victor-Hugo introducono la relativa in cui hanno sciolto il participio ‘signifying’ con la congiunzione ‘et’, ma in questo modo, cioè traducendo “et qui ne signifie rien", sembrano soltanto aggiungere un nuovo fattore al “fracas et furie” (Victor-Hugo) o al “bruit et chaleur” (Guizot) di cui erano pieni il ‘conte’ o la ‘histoire’. Diversa e più radicale la soluzione proposta da Carlo Rusconi, il quale, traducendo “e che alla fine non significa nulla” intese sottolineare l’inutilità di cercare un qualche valore in quella favola che è la vita: essa non significa nulla.
‘Nulla’: ‘nothing’. Qualcuno fra i traduttori presi in esame ha ritenuto di poter spostare questa decisiva parola da quell’ultima posizione che ne faceva la conclusione di tutto il ragionamento. Così entrambi gli spagnoli scrivono “que nada significa”, mentre Raponi e Gassman espungono del tutto la parola ‘nothing’, riducendola a mera funzione grammaticale; mentre va ricordato che lo stesso Schiller aveva scritto ‘nichts’ con l’iniziale minuscola, quasi negando al termine la forza del sostantivo.
Ora, il termine e l’idea del Nulla hanno assunto particolare rilievo nella filosofia fenomenologica ed esistenzialista: basti ricordare il classico trattato di Jean Paul Sartre L’Etre et le Néant tradotto in tedesco con Das Sein und das Nichts e in inglese con Being and Nothingness.
L’inglese ‘nothing’ è una parola composta: alla lettera vale ‘nessuna cosa’, veicolando un certo sapore di concretezza. Per questo varrà la pena di riflettere ancora un momento sui termini con cui esso è stato tradotto. Degli italiani si è già fatto cenno: essi hanno optato per ‘nulla’, parola che solo i toscani usano nel discorso corrente, in frasi come “non capisci nulla” o “sei un buono a nulla” o, ancora "qui non c'è proprio nulla (nessuna cosa)"; i settentrionali preferiscono dire ‘niente’, talvolta storpiato in ‘gnente’, ‘nulla’ essendo percepito come essenzialmente letterario. Sia Guizot sia Victor-Hugo traducono ‘nothing’ con l’esatto corrispondente dell’italiano ‘niente’: ‘rien’. Forse, appoggiandosi a Sartre, avrebbero potuto tradurre con ‘Néant’, ma Sarte premette a ‘Néant’ un articolo (le Néant), facendone un concetto più metafisico che gnoseologico, quale sembra invece essere nel testo shakespeariano.
‘Sembra’ perché proprio in quest’ultima, magica ambiguità si riassume tutto il senso del monologo: il ‘tale’ (o racconto o favola o storia) non hanno significato alcuno, ma per ciò stesso nessuna realtà.
APPENDICE
RAPONI Goffredo:
Domani, e poi domani, e poi domani, il tempo striscia, un giorno dopo l'altro, a passetti, fino all'estrema sillaba del discorso assegnato; e i nostri ieri saran tutti serviti a rischiarar la via verso la morte a dei pazzi. Breve candela, spegniti! La vita è solo un'ombra che cammina, un povero attorello sussiegoso che si dimena sopra un palcoscenico per il tempo assegnato alla sua parte, e poi di lui nessuno udrà più nulla: è un racconto narrato da un idiota, pieno di grida, strepiti, furori, del tutto privi di significato!
RUSCONI Carlo:
Ah, ella avrebbe dovuto almeno morir più tardi, quando tolto n’era il mezzo d’udire tal novella... Così il dimani, poi il dimani, poi un altro dimani ancora ci sorprende, e tutti i nostri giorni passati altro non fecero che rischiarare agl’incauti il sentiero che guida alla sepoltura. Oh spegniti, spegniti lampada ingannatrice: la vita altro non è che un’ombra incerta, che offusca brev’ora gli oggetti, poi si dilegua. È una favola narrata da un idiota con enfasi di gesti e di suoni, e che alla fine non significa nulla, (entra un Corriere) Quai cose rechi?
CHIARINI Cino:
Avrebbe dovuto morire più tardi; non sarebbe mancato il momento opportuno per udire una simile parola. -Domani, poi domani, poi domani: così, da un giorno all’altro, a piccoli passi, ogni domani striscia via fino all’ultima sillaba del tempo prescritto; e tutti i nostri ieri hanno rischiarato, a degli stolti, la via che conduce alla polvere della morte. Spengiti, spengiti, breve candela! La vita non è che un’ombra che cammina; un povero commediante che si pavoneggia e si agita sulla scena del mondo, per la sua ora, e poi non se ne parla più; una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e di furore, che non significa nulla.
LOMBARDO: Agostino:
SEYTON La Regina, mio signore, è morta.
MACBETH Sarebbe dovuta morire, prima o poi: / Sarebbe venuto il momento per una parola sfratta / Domani, e domani, e domani, striscia /A piccoli passi da un giorno all’altro, / Fino all’ultima sillaba del tempo prescritto; / E tutti i nostri ieri hannoilluminato / A degli stolti la via che conduce / Alla morte polverosa. / Spegniti, spegniti, Corta candela / La vita non è che un’ombra / Che cammina, un povero attore / Che si pavoneggia e si agita per la sua ora / Sulla scena e del quale poi / Non si ode più nulla: è una storia /Raccontata da un idiota, piena di rumore / E furia, che non significa nulla
GASSMAN, Vittorio
Più tardi doveva morire: nel tempo adatto a dire una tale parola. Domani e poi domani e poi domani, striscia di giorno in giorno a passi corti verso la zeta del tempo prescritto; e tutti i nostri ieri hanno rischiarato a degli sciocchi il sentiero polveroso che conduce alla morte. Via, consumati, corta candela! la vita è soltanto un’ombra errante, un guitto che in scena s’agita un’ora pavoneggiandosi, e poi tace per sempre: una storia narrata da un idiota, colma di suoni e di furia, senza significato.
CHINOL Elio:
Doveva morire. Un giorno quella parola doveva essere pronunciata. Domani e domani e domani. Lentamente il domani si insinua, giorno dopo giorno, fino all’ultima ora del tempo prescritto. e tutti i nostri ieri hanno illuminato a degli sciocchi la via alla polverosa morte. Via via, spegniti piccola candela. La vita non è che un’ombra che passa. un povero attore che si agita e si pavoneggia la sua ora sulla scena e non ne resta più memoria. è il racconto di un idiota, pieno di rumore e di furore, che non significa nulla.
VICTOR-HUGO François:
Elle aurait dû mourir plus tard; le moment serait toujours venu de dire ce mot-là!... Demain, puis demain, puis demain glisse à petits pas de jour en jour jusqu'à la dernière syllabe du registre des temps : et tous nos hiers n'ont fait qu'éclairer pour des fous le chemin de la mort poudreuse. Eteins-toi, éteins-toi, court flambeau! La vie n'est qu'un fantôme errant, un pauvre comédien qui se pavane et s'agite durant son heure sur la scène et qu'ensuite on n'entend plus; c'est une histoire dite par un idiot, pleine de fracas et de furie, et qui ne signifie rien...
GUIZOT François Pierre:
Demain, demain, demain,se glisse ainsi à petits pas d'un jour à l'autre, jusqu'à la dernière syllabe du temps inscrit ;et tous nos hier n'ont travaillé, les imbéciles, qu'à nous abrégerle chemin de la mort poudreuse. Éteins-toi, éteins-toi, court flambeau :la vie n'est qu'une ombre qui marche ; elle ressemble à un comédien qui se pavane et s'agite sur le théâtre une heure ; après quoi il n'en est plus question; c'est un conte raconté par un idiot avec beaucoup de bruit et de chaleur, et qui ne signifie rien.
SCHILLER Friederich
Macbeth (nach einem langen Stillschweigen).
Wär' sie ein andermal gestorben!
Es wäre wohl einmal die Zeit gekommen
Zu solcher Botschaft! (Nachdem er gedankenvoll auf und ab gegangen.)
Morgen, Morgen
Und wieder Morgen kriecht in seinem kurzen Schritt
Von einem Tag zum andern, bis zum letzten
Buchstaben der uns zugemeßnen Zeit,
Und alle unsre Gestern haben Narren
Zum modervollen Grabe hingeleuchtet!
– Aus, aus, du kleine Kerze! Was ist Leben?
Ein Schatte, der vorüber streicht! Ein armer Gaukler,
Der seine Stunde lang sich auf der Bühne
Zerquält und tobt; dann hört man ihn nicht mehr.
Ein Märchen ist es, das ein Thor erzählt,
Voll Wortschwall, und bedeutet nichts.
[Übersetzung von Friedrich Schiller] Zur Vorstellung auf dem Hoftheater zu Weimar eingerichte
ANONIMO
Un día u otro había de morir. Hubiese habido un tiempo para tales palabras... El dıa de Mañana, y de Mañana, y de Mañana se desliza, paso a paso, día a día, hasta la sílaba final con que el tiempo se escribe. Y todo nuestro ayer iluminò a los necios la senda de cenizas de la muerte. ¡Extínguete, fugaz antorcha! La vida es una sombra tan sòlo, que transcurre; un pobre actor que, orgulloso, consume su turno sobre el escenario para jamàs volver a ser oído. Es una historia contada por un necio, llena de ruido y furia, que nada significa
Alfonso Plou
Tenía que morir un día u otro. Siempre hay tiempo para esas palabras... Mañana, o mañana, o mañana se cuela, con pequeños pasos, día a día, hasta la sílaba final del tiempo prescrito. Y todo nuestro ayer iluminó a los necios la senda polvorienta que lleva a la muerte. ¡Extínguete, fugaz candela! La vida es sólo una sombra errante, un pobre actor que se pavonea y retuerce una hora sobre la escena y después calla para siempre. Es una historia contada por un idiota, llena de ruido y de furia, que nada significa.
Ultimi commenti
Grazie, Cesare, non conoscevo il Teatro Povero di Montichiello, l'articolo mi ha regalato molte cose
Grazie Cesare per il bell'aricolo su Andrea Cresti e sul Teatro Povero di Monticchiello, che ho avuto la fortuna di vedere diversi anni fa
Grazie Cesare x questo articolo che celebra una infinita ricchezza umana artistica volata via in questo tempo buio in cui Thanatos si aggira indisturbato per le strade.....
Bellissimo articolo scritto con il cuore...grazie per averlo condiviso.